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Non è il momento di colpi bassi e mosse sotto-banco da parte della Cina. Specialmente se dinnanzi c’è il G20. Eppure, a Washington la preoccupazione c’è, visto che la moratoria sui prestiti concessi ai Paesi più poveri dai grandi della Terra potrebbe trasformarsi in un assist alle banche del Dragone. Come? Nei giorni scorsi le economie avanzate, che da decenni finanziano i Paesi in via di sviluppo attraverso flussi di finanziamenti annuali, hanno deciso di estendere il blocco degli interessi fino a fine 2021. In altre parole, denaro a costo zero per altri sei mesi.

Fin qui tutto bene, anzi no. Perché se è vero che il diavolo sta nei dettagli, il rischio è che entrino ancora una volta i gioco i famosi prestiti muscolari concessi dalla Cina ai medesimi Paesi, dalle clausole opache e dalla natura ostile e predatoria. Ne sanno, come raccontato a più riprese da Formiche.net, i Paesi africani, ma anche quelli asiatici, come il Pakistan, strozzati dai rimborsi molto spesso insostenibili.

La paura degli Stati Uniti è proprio questa: la boccata di ossigeno concessa dal G20 ai Paesi più poveri, fortemente indebitati con la Cina, potrebbe rivelarsi un assist proprio per Pechino, che potrebbe far scattare la tagliola dei rimborsi relativi ai suoi finanziamenti capestro. In altre parole, se i Paesi poveri risparmiano sugli interessi, perché non approfittarne chiedendo il rientro dei debiti con Pechino?

Non è fanta-finanza, se lo fosse il segretario al Tesoro americano, Janet Yellen non si sarebbe scomodato a far trapelare – nel corso di un meeting ufficiale finanziario dedicato proprio ai finanziamenti verso le economie in via di sviluppo – il suo timore che Pechino possa in qualche modo trarre vantaggio dalla moratoria.

“Abbiamo parlato diffusamente con la Cina della loro partecipazione al programma del G20 per il finanziamento ai Paesi in via di sviluppo”, ha spiegato Yellen. “Il governo di Pechino ha promesso di partecipare come partner alla pari in questi schemi di debito. Bene, ma ad essere onesti saremmo molto preoccupati se gli aiuti forniti a questi Paesi, anche in materia di ritardo nel pagamento degli interessi, venissero utilizzati in qualche modo per per ripagare il debito cinese. Ciò vanificherebbe lo scopo stesso dei programmi”.

Ma c’è un’altra preoccupazione nella testa di Janet Yellen: quella inflazione che rischia di complicare e non poco i piani di Joe Biden per il rilancio dell’economia Usa. Ieri c’era attesa per un dato che può far male alle Borse, che più di tutto temono una stretta della Fed sul costo del denaro che ne ridurrebbe l’afflusso nell’economia, frenando la crescita. Timore, a giudicare dai dati, giustificato.

L’inflazione a maggio negli Stati Uniti è salita dello 0,6% rispetto ad aprile, oltre le attese degli analisti che scommettevano su un aumento dello 0,5%. Su base annua i prezzi al consumo sono cresciuti del 5%, anche in questo caso sopra il 4,7% su cui scommetteva il mercato. L’aumento dell’inflazione al 5% è il maggiore dal 2008, l’anno di Lehman Brothers.  L’inflazione è osservata speciale da parte delle banche centrali. La ripresa dell’economia e il combinato disposto di politiche monetarie ultra espansive e sostegni pubblici all’economia rischiano infatti di surriscaldare i prezzi al consumo. Se così accadesse le banche centrali sarebbero costrette a stringere i cordoni della borsa causando possibili rallentamenti della crescita economica.

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