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Dire che in Italia manca una vera cultura della Difesa equivale a unirsi a uno stantio ritornello che non ha avuto neppure la funzione di innescare un dibattito serio sulle Forze armate e sullo strumento militare. Paradossalmente si parla più diffusamente della necessità e della fisionomia di un futuro esercito europeo e non si cerca di mettere a fuoco neppure i fondamentali di quello nazionale.

Eppure, le sollecitazioni degli ultimi trent’anni non sono state poche: l’impegno prolungato e concreto nell’affiancare le altre istituzioni nella lotta alla pandemia e il ponte aereo con Kabul per evacuare migliaia di disperati sono solo gli ultimi due esempi in cui il cittadino si è limitato a registrare gli eventi quasi fossero un atto dovuto, senza farsi domanda alcuna sul come certe capacità militari abbiano potuto essere rese duali, senza chiedersi di quale dimensione, fisionomia e forza fosse il corpo cui quelle braccia generose appartenevano; né sono servite a mettere in moto una qualsiasi riflessione le punture di vespa di Michela Murgia, la quale a reti unificate ha voluto manifestare senza mezzi termini le sue paure, forse ancestrali più che meditate, provocate dalla sola visione di una divisa.

In questo vuoto di pensiero è sfuggito, anche a chi talvolta si è dilettato della materia, un aspetto centrale: che proprio l’assenza di attenzione per le Forze armate ha consentito a queste ultime di agire indisturbate nei processi di approntamento delle loro capacità, nell’acquisizione dei sistemi d’arma e nella tessitura dei rapporti internazionali, purché gli stessi si collocassero nell’ambito di una appartenenza di campo coerente con la politica estera del Paese. Una sostanziale libertà di azione insomma cui è mancato sostanzialmente il controllo politico e della stampa che ha trattato le questioni militari in maniera superficiale, disinformata e il più delle volte pregiudiziale.

Fortuna ha voluto che la cosa pubblica fosse questa volta nelle mani di decisori responsabili, cresciuti nella vera etica del servire lo Stato con lealtà ed onore, e questo ha prodotto con il tempo uno strumento militare di tutto rispetto, in grado di inserirsi a pieno titolo e meglio di quasi ogni altro Paese europeo nell’ampio spettro delle missioni multinazionali. Questo nulla toglie, semmai aggrava, lo scollamento tra mondo militare e società, tra i militari e i loro interlocutori politici, mediatici, sociali.

I ministri che si sono succeduti alla guida del dicastero hanno avuto tutti un profilo ricorrente, quello di essere personaggi di spicco all’interno dei propri partiti e che nella costituzione dei vari governi non avevano potuto aggiudicarsi altri ministeri di peso; e si sono dovuti così far carico di governare un mondo poco familiare, privi degli strumenti conoscitivi atti a lasciare il segno del proprio passaggio. Per contro va riconosciuto che, tranne in un paio di casi, il dicastero è stato retto con un senso di appartenenza e motivazione crescenti man mano che il mondo militare, i suoi rituali e i suoi valori prendevano forma agli occhi dei responsabili politici di turno.

Anche il Parlamento non si è sottratto alla regola della scarsa permeabilità del mondo militare. E questo anche in virtù di una interlocuzione istituzionale tra governo e Camere troppo macchinosa, tecnica, ridondante e dettagliata che ha impedito a chiunque ne avesse avuto la volontà, di fare sintesi delle informazioni ed esercitare concretamente il doveroso ruolo di controllo e guida. Sarebbero tutti questi, da soli, motivi più che sufficienti per tentare un nuovo corso; ma oggi vi è dell’altro che rende necessario puntare a più oculati equilibri nella interlocuzione gerarchica e funzionale del mondo della Difesa, ed è questo l’auspicio che mi sento di formulare in questo 4 novembre.

Intanto, la vera palla al piede del sistema rischia seriamente di appesantirsi ulteriormente a causa di alcune turbative interne che negli ultimi due anni hanno cominciato a mordere seriamente. Alcuni danni sono pressoché irreversibili, altri potrebbero far scoccare in ogni momento la scintilla di una divaricazione ulteriore tra Forze armate.
Una condizione aggravante e aggiuntiva al vero handicap del sistema, individuabile senza dubbio alcuno nella pervicace ritrosia a fare squadra, a interagire tra diverse Forze armate, a condividere risorse, strutture, professionalità, know how. Una anomalia questa che viene da lontano, se si pensa che il generale Camporini, lasciando dieci anni fa anni fa l’incarico di vertice della Difesa, nel suo discorso di commiato ammise candidamente di aver avuto serie difficoltà persino a mettere in piedi una scuola di lingue estere in comune tra le Forze armate.

Ecco allora che su questo, a maggior ragione oggi più di ieri, occorre puntare: tramutare in concretezza il concetto di collaborazione interforze, incamminarsi, costi quel che costi, verso una gestione più integrata dello strumento militare sviscerando in ogni sede le ragioni dell’impegno da rendere comune, stanando chi resiste su questo cammino di buona amministrazione con tutta l’energia che ormai la partita merita.

È certamente un compito molto arduo; bisogna, da non addetti ai lavori, studiare i dossier ed entrare nel merito di materie poco familiari, ma chi rema contro va finalmente stanato. Il tentativo va fatto oggi approfittando della congiuntura favorevole a via Venti Settembre dove l’architettura di gestione del mondo militare pare finalmente ben strutturata e oliata, dove tutto soggiace a criteri di corretto management, posto nelle mani di persone capaci e motivate a iniziare dall’esponente di vertice.

Il 4 novembre e la cultura (che manca) della Difesa. Scrive il gen. Tricarico

La riflessione del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, in occasione del 4 novembre, Giorno dell’Unità nazionale e Giornata delle Forze armate. L’auspicio, approfittando della congiuntura favorevole a via XX Settembre, è puntare a più oculati equilibri nella interlocuzione gerarchica e funzionale del mondo della Difesa

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