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Non più tardi del 4 dicembre, Antony Blinken, ai tempi segretario di Stato, ribadiva gli obiettivi di lungo termine dell’amministrazione Biden in Siria: evitare una rinascita dell’IS, ridurre la violenza interna e sostenere il governo provvisorio nella transizione politica. Tuttavia, la nuova amministrazione Trump sembra intenzionata a ridimensionare questo genere di impegno americano, pensando all’uscita dalla Siria in termini pragmatici: risparmio economico e tattico di quel migliaio di soldati presenti al nord/nord-est, narrazione contro le “endless war” da dare in pasto agli elettori (che ormai è chiaro, America First o meno, non vedono più da anni necessario questo costante coinvolgimento internazionale militare americano).

Ma è chiaro che un potenziale vuoto strategico potrebbe essere sfruttato dai rivali degli Usa, a meno che non viene costruito un meccanismo di bilanciamento perfettamente funzionante. Ci sono rumors su come qualcosa si stia muovendo in questo senso, con il coinvolgimento di altri attori presenti sul dossier. Per ora sembra che anche i principali player globali anti-americani stanno cercando di comprendere come poter sfruttare questa situazione a detrimento di Washington (perché non si sprecano occasioni).

Per esempio, dopo aver sostenuto con un coinvolgimento militare diretto il regime assadista, ora la Russia tenta un approccio al governo transizionale guidato dai rivoluzionari che hanno rovesciato quel regime. A pragmatismo, pragmatismo e mezzo. E se Mosca ha difficoltà ovvie nell’aprire un dialogo, ma ne ha necessità per mantenere attività nelle basi strategiche mediterranee in Siria, Pechino ha ancora maggiori spazi se gli Usa dovessero lasciare campo libero — tirando via i militati e abbandonando il dossier anche in termini più ampi. 

La Cina vede nella Siria un nodo importante della Belt and Road Initiative (Bri), l’infrastruttura geopolitica per collegare l’Oriente all’Europa, in cui Damasco ha ufficialmente aderito nel 2022. Fino ad oggi il contesto di guerra non ha ancora permesso investimenti in progetti concreti. Ma con l’avanzare dei processi di normalizzazione e il rafforzamento delle istituzioni locali, potrebbero aprirsi opportunità per nuove iniziative cinesi.

Chiaramente, Pechino è consapevole che la Siria sia una porta di accesso strategica al Mediterraneo e un importante tassello per consolidare le rotte della Bri, affacciate sul Mediterraneo Orientale — dove si trovano le piattaforme di idrocarburi più prolifiche della regione, un’area (per quanto complessa) già integrata con le connessioni verso la Turchia e l’Unione Europea (pensare al grande porto del Pireo, controllato dalla cinese Cosco).

L’interesse diventa ancora maggiore se si pensa che scorrendo le coste siriane verso sud si arriva al Libano (dove le istituzioni faticano a ricostruirsi) e poi a Israele, dove a Haifa — una volta recuperata la stabilità — avrà sbocco Imec, il corridoio di connettività tra India, Medio Oriente ed Europa.

Il potenziamento della presenza cinese in Siria, che i rivoluzionari al potere potrebbero accettare come sponda necessaria per i propri interessi di sviluppo e accreditamento internazionale, diventa allora una questione strategica non indifferente con cui la ridistribuzione dell’interesse statunitense si trova a che fare. Il coinvolgimento più attivo della Cina è in ottica con la grand-strategy di Pechino sia per quanto riguarda la riduzione di influenza americana che sul piano geoeconomico, e potrebbe ridefinire gli equilibri regionali, visto anche l’allineamento con Russia e Iran.

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