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Nella vicenda del vitalizio/pensione di Roberto Formigoni l’unico oltraggio alle istituzioni è quello in atto da parte della vice-presidente del Senato Paola Taverna che sta facendo indebite pressioni su di un organo giurisdizionale (il Consiglio di garanzia) chiamato a giudicare in secondo grado (dopo la pronuncia della Commissione del Contenzioso) in modo conforme alle leggi e ai principi costituzionali.

La vicenda è nota. Essendo l’ex presidente della Lombardia condannato con sentenza definitiva ad una pena superiore a due anni di reclusione, gli era stata applicata la sanzione della sospensione del vitalizio sulla base di quanto prescritto dalla delibera voluta dal presidente Pietro Grasso nella precedente Legislatura. Formigoni ha presentato ricorso – come suo diritto – alle istanze della giurisdizione interna (secondo il principio dell’autodichia riconosciuta agli organi costituzionali) le quali in primo grado gli hanno dato ragione. Così i “grillini”, al pari dell’assassino nei romanzi gialli, sono tornati sul luogo del delitto. Dimostrando ancora una volta – dopo la vicenda Grillo – che per loro la giustizia è solo un’arma da usare nella lotta politica.

La delibera Grasso (un magistrato di alto rango non avrebbe mai dovuto diventare protagonista di un tale abuso) del 2015, – poi recepita anche dalla Camera presieduta da Laura Boldrini – stabiliva quanto segue: “E’ disposta la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali erogati a titolo di assegno vitalizio o pensione a favore dei deputati cessati dal mandato che abbiano riportato, anche attraverso” il patteggiamento a) condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale (mafia e terrorismo) e dagli articoli da 314 a 322-bis, 325 e 326 del codice penale (reati contro la P.A. come peculato e concussione); b) “condanne definitive con pene superiori a due anni di reclusione per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a sei anni, così determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale”.

A suo tempo furono sollevati molti dubbi sulla legittimità di tali disposizioni. E furono richiesti pareri pro veritate ad insigni giuristi, tra i quali Valerio Onida, presidente emerito della Consulta. Le sue argomentazioni non lasciano dubbi. Onida, in via preliminare, pose la questione della ratio di un provvedimento siffatto, domandandosi se la revoca o la sospensione: a) fossero un’ulteriore sanzione per il reato commesso e ad esso conseguente; b) riguardassero un beneficio concesso unilateralmente e “graziosamente” dallo Stato la cui motivazione venisse a mancare nel momento in cui cessasse l’onorabilità del beneficiario; c) derivassero da una nuova normativa relativamente ai requisiti. Il parere poi prendeva in esame ognuna di queste causali con dovizia di argomenti (il documento era di ben 19 pagine) arrivando alle seguenti conclusioni per ciascuna di esse.

Se si fosse trattato di pene accessorie, esse sarebbero state di competenza dell’autorità giudiziaria con la sentenza di condanna (il che nel caso Formigoni non è avvenuto); ma tali sanzioni non avrebbero potuto riguardare i trattamenti di natura previdenziale obbligatoria, ma solo eventuali benefici concessi unilateralmente per motivi che vengano meno in caso di sopraggiunta indegnità. Nel parere, poi, vi era una approfondita disamina delle caratteristiche del vitalizio e della sua equiparabilità – pure nella differenza di origine e di funzione – ad un trattamento di pensione. Il che – in quel contesto normativo – ricopriva un significato dirimente proprio per escludere che si trattasse di una sorta di “benemerenza gentilmente concessa” e quindi revocabile.

Quello degli aspetti previdenziali è un filone interessante da approfondire, perché tra la delibera del 2015 e la sua applicazione nel caso di Formigoni, la prestazione “vitalizio” ha mutato natura giuridica. È indubbio, infatti, che la natura previdenziale della prestazione sia approdata a riferimenti più sicuri dopo la riforma dei vitalizi degli ex parlamentari (con delibere di ambedue le presidenze nel 2018), ricalcolati con un metodo contributivo (benché discutibile nei criteri adottati) proprio per rafforzarne – si disse – il carattere di pensione. La giurisprudenza consolidata ha escluso persino che le prestazioni di carattere assistenziale siano revocabili a fronte di certi reati di particolare gravità (anche di mafia e terrorismo).

È veramente singolare che una sanzione siffatta sia comminata nel caso di un trattamento pensionistico obbligatorio in cui – in una qualche misura – vi sia un sinallagma tra la prestazione e la contribuzione versata, adottato sia pure con qualche forzatura proprio per eliminare il carattere di “concessione privilegiata” per lo status di parlamentare. Se il vitalizio è diventato pensione anche attraverso il ricalcolo dei periodi pregressi; e se la pensione è un diritto soggettivo; se la retorica populista ha preteso che anche gli ex parlamentari avessero la pensione “come gli altri cittadini” (in realtà finendo per operare una discriminazione ai loro danni, perché gli ex parlamentari sono gli unici a cui è stata ricalcolata la pensione/ex vitalizio, col criterio contributivo), che cosa va fantasticando Paola Taverna? Anche nella follia non stonerebbe un po’ di logica. E un po’ di vergogna.

Vitalizi, cosa va fantasticando Paola Taverna? Scrive Cazzola

Se il vitalizio è diventato pensione anche attraverso il ricalcolo dei periodi pregressi e se la pensione è un diritto soggettivo; se la retorica populista ha preteso che anche gli ex parlamentari avessero la pensione “come gli altri cittadini”, che cosa va fantasticando Paola Taverna? Il commento di Giuliano Cazzola

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