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Recentemente, anche su Formiche.net, sono stati molto commentati i risultati di un’indagine che vedrebbe i giovani poco interessati a lavorare presso la Pubblica amministrazione.

In particolare, le dimensioni dell’immagine che hanno riscosso maggiore interesse riguardano due dati specifici: il primo è che più del 70% degli intervistati, tra i 25 e i 35 anni, non ha mai preso in considerazione l’idea di lavorare per la Pubblica amministrazione. Il secondo, è che le motivazioni di tale disinteresse sono principalmente che secondo il campione, alla Pubblica amministrazione vi si acceda soltanto mediante raccomandazione (35,6%), che sia un ambito di lavoro poco stimolante (30,4%) in cui non viene premiato il merito (26,4%).

Dati che sicuramente rilevano un disincanto “importante” che i giovani hanno nei riguardi della Pubblica amministrazione.

Ma sono anche dati che meritano un maggior contesto, perché presi nella loro dimensione “assoluta”, rilevano soltanto una sfumatura della realtà.

Perché questi dati sono il frutto di un campione di persone tra i 25 e i 35 anni, vale a dire individui che, ipotizzando che abbiano almeno un diploma di scuola superiore, sono entrati nel mondo del lavoro al massimo 17 anni fa, vale a dire il 2004.

Per chi non lo ricordi, il 2004 è l’anno in cui viene approvata la “devolution”, l’anno in cui entra in vigore il nuovo codice dei beni culturali, l’anno in cui, a dicembre, l’allora presidente di Confindustria Montezemolo dichiara: “Mai una crisi così nera, è la situazione peggiore dal dopoguerra”.

Da allora, e sino ad oggi, la Pubblica amministrazione non ha mai brillato per capacità di attrarre i talenti più ambiziosi, ma non ha nemmeno brillato “per numero di assunzioni”, che tra vincoli vari, hanno visto soltanto recentemente una timida ripresa concreta, anche a fronte delle roboanti dichiarazioni di intenti susseguitesi negli anni.

Il problema, pertanto, non è tanto se i giovani si siano mai posti il problema di cercare il lavoro per la Pubblica amministrazione, quanto piuttosto se questo lavoro ci sia mai realmente “stato”, tenendo conto che molte delle assunzioni che sono state condotte negli ultimi anni hanno avuto l’intento principale di “stabilizzare” contratti di lavoro già in essere.

Oggi però, scopriamo, fingendo un’ingenuità che non meritiamo di avere, che i giovani quando pensano al lavoro non pensano alla Pubblica amministrazione.

E lo facciamo esibendo anche un “mea culpa” che potrebbe risultare anche offensivo. Per anni, gli accessi alla Pubblica amministrazione sono stati più o meno blindati, e oggi che ci sono le condizioni per una nuova assunzione, si avviano concorsi che durano tempi biblici, con rinnovi costanti (con e senza Covid), o si avviano le procedure per assumere in modo rapido esperti o dipendenti non dirigenziali con un contratto a tempo determinato di un anno.

Lo stupore, quindi, può ragionevolmente colpire chi è cresciuto identificando la Pubblica amministrazione con il “posto fisso” alla Checco Zalone. Ma come lo stesso attore recitava nel film, sono ricordi da Prima repubblica.

Il punto dunque, è questo: a fronte della cattiva reputazione che il lavoro nella Pubblica amministrazione (a torto o a ragione, non importa) ha guadagnato negli anni, perché un giovane dovrebbe accedere ad un concorso per poter ambire ad un contratto a tempo determinato?

Agli occhi di questi “giovani”, per i quali il lavoro nella Pubblica amministrazione non ha mai rappresentato una solida costola della vita economica, sociale ed occupazionale del nostro Paese, risulterà molto più “conveniente” cercare un lavoro presso un operatore privato, che, tendenzialmente, anche a fronte di uno stipendio inferiore, fornisce più opportunità di crescita, o quantomeno di stabilità nel tempo.

Perché a queste persone, che sono cresciute nella “crisi”, ciò che interessa maggiormente è la possibilità di crescere professionalmente, così da scongiurare una condizione di non-occupabilità nel medio periodo, piuttosto che la retribuzione media più alta, ma per un solo anno.

E per capirne appieno la portata, basta guardare i dati sull’occupazione dei nostri laureati.

Secondo quanto indicato da Almalaurea, le persone che, nel 2020, avevano un lavoro ad un anno dalla laurea erano poco più del 40% del totale (tra i quali si contano anche coloro che hanno semplicemente proseguito il lavoro che avevano prima di laurearsi), con una retribuzione mensile netta pari a 1.218 euro. Nel caso delle discipline “letterarie-umanistiche” i dati presentano uno scenario ancora più “rigido”, in cui gli occupati rappresentano il 29,5%, con una retribuzione netta mensile pari a 939 euro. Ancora meno incoraggianti i dati riferiti alle discipline di “arte e design”, a lavorare è soltanto il 29,1% dei laureati, con una retribuzione mensile netta di 900 euro.

Stipendi che di certo non dipingono una generazione “pretenziosa”. Ma 900 euro al mese, per 5 anni sono di più di 1500 per uno, anche se contiamo il reddito di cittadinanza e la disoccupazione.

Non hanno studiato tutti questi anni, non hanno chiesto ai genitori di investire tutti quei risparmi per poi restare disoccupati o in attesa di uno slittamento di graduatoria per ricorso.

Allora il punto non è se i giovani vogliano lavorare o meno per la Pubblica amministrazione. Il punto è capire se intendono lavorare alle condizioni che la Pubblica amministrazione offre.

E questo, però, è tutto un altro discorso.

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Il punto non è se i giovani vogliano lavorare o meno per la Pubblica amministrazione. Il punto è capire se intendono lavorare alle condizioni che la Pubblica amministrazione offre. Il commento di Stefano Monti, partner di Monti & Taft

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