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È stata l’acquisizione del porto del Pireo, in Grecia, a svegliare il Vecchio continente sui rischi della penetrazione cinese. Oggi l’Europa non ha paura del Dragone d’Oriente, ma ha giustamente maturato una visione più critica, da preservare per non abbassare la guardia. È il quadro descritto da Helena Legarda, senior analyst del Mercator institute for China studies (Merics), think tank tedesco, tra i maggiori centri di ricerca europei dedicati al Dragone d’Oriente, intervista da Formiche.net a margine della conferenza “Black Sea and Balkan perspectives – a strategic region” organizzata mercoledì scorso dalla Nato Defense College Foundation.

I Balcani sono stati una delle prime regioni del Vecchio continente interessate dalla Belt and Road Initiative, a partire dall’acquisizione del porto del Pireo da parte di Cosco nel 2016. Ciò ha prodotto una sensazione, persino una paura, che “la Cina stesse arrivando” dalla porta sul retro dell’Europa, che i Balcani sarebbero diventati un “cavallo di Troia” cinese. Dopo qualche anno, e soprattutto dopo la pandemia, cosa è cambiato in questa prospettiva e nella percezione dei media e del pubblico?

Partendo dalla percezione della Cina nel suo complesso, quello che abbiamo visto dal 2016 è un cambiamento molto chiaro in Europa in termini di come molti Stati europei, le istituzioni dell’Ue e, in una certa misura, il pubblico guardano alla Cina: c’è molta più consapevolezza delle sfide che la Cina pone, non solo all’ordine globale, ma anche agli interessi e alla sicurezza europea. Ciò diventa molto evidente quando guardiamo a quanto velocemente l’Ue, rispetto al suo tipico ritmo legislativo, ha sviluppato e implementato politiche in risposta alla sua nuova consapevolezza delle sfide poste dalla Cina. In un tempo abbastanza record per gli standard dell’Unione, Bruxelles ha messo in atto un meccanismo di screening degli investimenti, la “strategia indo-pacifica” e la “strategia europea di connettività”.

Cosa ha spinto questo cambiamento?

La narrativa tradizionale in Europa è stata a lungo “l’economia prima di tutto”, e molti degli elementi politici e strategici della relazione con la Cina sono stati in un certo senso “nascosti sotto il tappeto”. L’attenzione suonava come: “facciamo soldi dal mercato cinese e lasciamo da parte tutti gli argomenti sensibili, perché o non si applicano a noi o non vogliamo sollevarli nel caso in cui la Cina si offenda e attui delle ritorsioni economiche”. Ciò ha cominciato a cambiare intorno al 2016, e il Pireo è stato uno dei motivi. In Germania, per esempio, ciò che ha veramente innescato il cambiamento del dibattito è stata l’acquisizione da parte di una società cinese di Kuka, un grande produttore di robotica. Dopo questo c’è stato un improvviso momento di “risveglio”, ci si è accorti che non era stata prestata abbastanza attenzione a molte questioni. In particolare, la narrazione tradizionale si è spostata con la pandemia di Covid-19: l’insabbiamento iniziale, la campagna di disinformazione in Europa, seguita dalle rivelazioni sui campi nello Xinjiang e la repressione delle libertà a Hong Kong, tutto ciò ha contribuito ad accelerare il cambiamento. Oggi la narrazione non è necessariamente sulla “paura della Cina”, ma è chiaramente una visione più critica o scettica rispetto al 2016, e sta diventando sempre più diffusa. Se si guarda ai sondaggi dell’opinione pubblica, a ciò che pensa la popolazione al di fuori dei circoli politici, le opinioni sulla Cina stanno peggiorando abbastanza rapidamente.

Per quanto riguarda lo sviluppo effettivo dei progetti della Bri, questo ha cambiato il focus del dibattito?

Quando la Belt and road initiative è stata introdotta per la prima volta, era ancora vista, in una certa misura, da gran parte della popolazione, dai media e anche da alcuni politici, come un’iniziativa abbastanza ben definita: “questa è la Bri, questi sono i progetti Bri, questi sono i Paesi membri della Bri”. Ora, dopo alcuni anni di esperienza, c’è più comprensione. Ora sappiamo un po’ meglio come funziona ed è diventato abbastanza chiaro che è un concetto abbastanza ampio, un termine-ombrello sotto il quale alcuni progetti rientrano e altri no. È ancora un po’ vago (non è chiaro ad esempio quali condizioni i progetti debbano soddisfare per esserne parte) ma l’attenzione è ora sui singoli progetti piuttosto che sulla Bri nel suo complesso. Offrendo un quadro così ampio, l’iniziativa cinese appare in forme diverse in differenti regioni del mondo. Le ambizioni, gli obiettivi e le linee-guida generali sono le stesse, ma quando si guarda a progetti specifici, alle loro condizioni e agli accordi, appaiono un po’ diversi e così fanno le sfide che essi pongono. Il dibattito riguardante la Bri si è quindi spostato, diventando un po’ più granulare, più preoccupato degli avvenimenti specifici in ogni progetto o in ogni regione.

E per quanto riguarda i Balcani?

In Europa, i Balcani sono stati una delle regioni di cui si è discusso di più, e questo perché la Bri ha un’attenzione abbastanza forte sulle infrastrutture che, ovviamente, si manifesta di più nelle aree che hanno bisogno di infrastrutture. I progetti in Germania, Italia, Francia o Spagna sono molto diversi perché non si tratta di costruire autostrade o ferrovie. Nei Balcani c’è domanda per tutti questi progetti infrastrutturali e naturalmente è lì che le aziende cinesi andranno a fare offerte. Gli investimenti cinesi nelle infrastrutture critiche creano ovviamente delle sfide per l’Europa che devono essere affrontate.

La Cina sta rafforzando le proprie forze armate e la sua cooperazione con la Russia, che è ancora la principale preoccupazione della Nato. In che misura questa militarizzazione e il legame tra Pechino e Mosca possono avere un impatto sull’Europa?

Le relazioni Cina-Russia sono piuttosto interessanti e di solito si dice che questa relazione è iniziata come una sorta di “matrimonio di convenienza”. Si può dire, però, che nel corso degli anni è diventato qualcosa di molto più solido. Hanno molteplici interessi in comune, primo fra tutti un avversario comune: gli Stati Uniti e, per estensione, la Nato. La relazione, tuttavia, non è un’alleanza completa e ci sono chiari limiti a ciò che Cina e Russia farebbero l’una per l’altra. Esempi sono la mancanza di coinvolgimento della Russia nella questione del Mar cinese meridionale e la reazione cinese all’annessione della Crimea, quando Pechino non ha sostenuto pubblicamente Mosca. In quell’occasione non l’ha neanche criticata, ma il mancato sostegno è sembrato una sorta di passo indietro. Un elemento importante della loro relazione è l’aspetto militare. Negli ultimi anni si è assistito a una maggiore cooperazione militare e a un aumento dei contatti militari e diplomatici, con visite di alto livello ed esercitazioni congiunte anche nel Mediterraneo e nel Mar Baltico. Tuttavia, finora, non hanno raggiunto il punto di realizzare operazioni congiunte e probabilmente non accadrà nel prossimo futuro. È improbabile che la Marina russa sostenga quella cinese nel Mar cinese meridionale, come lo è che la Marina cinese sarà presente nel Mar Nero. La cooperazione militare però, così com’è, è già un po’ preoccupante, anche per le possibilità future.

Perché?

Perché al di là dello spazio della guerra convenzionale, c’è molta più preoccupazione per la potenziale collaborazione tra Cina e Russia nella guerra ibrida, con potenziali trasferimenti di know-how e condivisione di informazioni. La cooperazione completa non si è ancora materializzata del tutto, ma stanno puntando in quella direzione e la Nato ha ragione a esserne preoccupata.

Così la Cina è penetrata in Europa (e non solo). Intervista a Helena Legarda (Merics)

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