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Rilanciare la produzione dei vascelli della US Navy, sostenere l’impiego di manodopera locale e riportare gli Stati Uniti sul podio delle potenze cantieristiche mondiali. Questo, in poche parole, è il piano di Donald Trump per quanto concerne la cantieristica Usa. Il settore, ormai da tempo sotto sforzo, è anche uno dei simboli più potenti della competizione strategica con la Cina. Il nuovo ordine esecutivo firmato dal presidente, che cade sotto il nome di “Restoring America’s maritime dominance”, prevede diverse misure per raggiungere questo obiettivo, tra cui la (già annunciata) creazione di un ufficio dedicato per lo shipbuilding in Pennsylvania Avenue e la predisposizione di un Piano di azione marittima entro il 2025.

Ricostruire la superiorità marittima americana

Gli Stati Uniti sono intrinsecamente una potenza navale. Stretti fra due oceani, il segreto della loro profondità strategica e delle loro incomparabili capacità di proiezione risiede nella consapevolezza — sempre riconosciuta a Washington —  che la la Marina riveste un ruolo di primo piano tra le Forze armate. La Marina dell’Esercito popolare di liberazione cinese ha già doppiato la US Navy per quanto riguarda il numero di navi in servizio, ma Washington mantiene il vantaggio sul tonnellaggio — vero dato da tenere in considerazione quando si analizzano i dispositivi navali. Se si guarda al tonnellaggio, infatti, gli Usa battono ancora la Cina 2 a 1. Maggiore tonnellaggio comporta più armamenti trasportabili, minori intervalli di rifornimento e (se pensiamo alle portaerei) capacità di proiezione di potenza a lungo raggio. Gli Stati Uniti non temono certo che la Marina cinese si affacci sulla baia di San Francisco, ma sanno che Pechino punta ad ottenere la superiorità locale nei mari cinesi sfruttando la dispersione globale della US Navy. Pertanto, l’obiettivo di Trump è di portare entro pochi anni la Marina Usa a quota 381 navi, rispetto alle 295 attualmente in servizio. Sfida non indifferente, specialmente se si considera che il settore cantieristico è forse quello uscito maggiormente ridimensionato dal calo degli investimenti post Guerra fredda. 

Le misure di Trump e la stoccata alla Cina

Un simile sforzo economico e industriale richiederà un approccio olistico (di Sistema Paese, diremmo noi) ed è per questo che l’ordine esecutivo recentemente firmato prevede che, entro 210 giorni dalla firma dell’ordine, le agenzie federali competenti, coordinate dal Consigliere per la Sicurezza nazionale, Mike Waltz, dovranno presentare un piano strategico che includa valutazioni di carattere fiscale e legislativo, misure di sostegno alla base industriale e proposte per la formazione e l’assunzione della forza lavoro necessaria. Parallelamente, entro 180 giorni, il segretario alla Difesa, Pete Hegseth, in coordinamento con gli altri dipartimenti federali interessati, dovrà presentare delle azioni volte non solo a rilanciare la produzione di assetti militari, ma anche a garantire la sicurezza della rete portuale e delle catene di approvvigionamento.

Come verrà finanziato tutto questo? Secondo l’Ufficio congressuale del budget saranno necessari almeno 40 miliardi di dollari all’anno per sostenere l’aumento della flotta. A questi vanno aggiunti i fondi necessari al rilancio della produzione e degli impianti. Se il costo delle navi potrà essere coperto dal budget del Pentagono (attualmente in fase di revisione e riallocazione), i fondi per gli interventi strutturali sul lato industriale verranno da un fondo dedicato, il Maritime security trust fund (Mstf). Il fondo sarà alimentato — da quanto si legge nell’ordine esecutivo — da entrate derivanti da tariffe e imposte su navi e attrezzature portuali straniere. La mossa è chiaramente rivolta contro la Cina, la quale ha fatto della cantieristica civile uno strumento cardine del proprio soft power, anche negli Usa.

Un’opportunità per i player europei?

America First a parte, l’amministrazione Usa sa bene che per raggiungere obiettivi così ambiziosi ci sarà bisogno di ogni risorsa a disposizione. E qui entrano in gioco i partner stranieri. Trump vuole che il rilancio della produzione supporti le economie locali, la creazione di posti di lavoro e il recupero sui ritardi accumulati, ma ciò non implica che intenda rinunciare al know how o alle eccellenze tecniche straniere già presenti da anni nel Paese. Da tempo infatti il tessuto industriale statunitense ha visto l’inserimento di partner non americani (principalmente europei, ma anche asiatici) nel proprio ecosistema per mezzo di controllate sul territorio nazionale. È il caso — per citarne solo uno — di Marinette Marine, controllata Usa di Fincantieri e titolare dell’appalto per le nuove fregate classe Constellation, a loro volta basate sul design delle Fremm nostrane. Sia la nazionalizzazione diretta sia un passaggio di proprietà ad altre aziende americane richiederebbero tempo e risorse che, in questa fase, non farebbero che aggravare ulteriormente le criticità che Trump vuole risolvere. Come per altri dossier, Trump, da businessman quale è, non chiude porte, ma vede di buon occhio la rinegoziazione di accordi e la creazione di nuove partnership basate sulla reciprocità dei vantaggi.

In prospettiva, il piano di Trump può rappresentare un’opportunità per le aziende straniere. Rafforzare la presenza sul mercato americano sarà dunque possibile, soprattutto tenendo a mente le priorità dell’amministrazione. Questo significherà però investire in infrastrutture locali, impiegare manodopera statunitense e contribuire alla sicurezza delle linee produttive. In altri termini, chi saprà dimostrarsi parte della soluzione — e non dell’equazione da risolvere — troverà spazio nell’America che vuole tornare a dominare i mari.

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