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Tre sono gli eventi che mettono l’ipoteca sul normale svolgimento della politica italiana (ove mai qualcosa di normale ancora abitasse questa bizzarra attività umana), distraendola dal suo vero lavoro che è quello allestito dagli uffici stampa a beneficio dei telegiornali: il primo è il “grande imponderabile”, spesso drammatico, come le epidemie o le guerre.

Il secondo, a scadenza ipoteticamente fissa, ma in realtà spesso variabile, sono le elezioni politiche, per nove volte anticipate, dal 1972 al 2006.

Il terzo l’elezione del capo dello Stato. Come in quei film fantasy in cui un raro allineamento di pianeti prepara cose strane per gli umani, questa volta tutti e tre gli eventi sembrano mettersi insieme.

C’è la pandemia, che ha generato, eccome, politica da due anni a questa parte. C’è una legislatura agli sgoccioli, che si conclude, è vero, solo nel marzo del 2023, ma potrebbe andare in cortocircuito anche prima. C’è l’elezione del capo dello Stato, tra cinque mesi,evento che storicamente in Italia ha invaso della sua luce il tempo che la precede, a partire almeno dal “semestre bianco”.

In sovrappiù c’è il trauma del Parlamento ridotto, di cui la politica si è ornata per fare la “brillante” col popolo, ma che adesso, appropinquantesi il giorno fatidico della caduta della scure, sta creando parecchie fibrillazioni tra i “brillantoni” costretti a dire addio per sempre ai Palazzi del potere.

Il primo appuntamento, dunque, è l’elezione del Capo dello Stato, da cui peraltro dipende anche la durata residua della legislatura. In soldoni: per eleggere un capo dello Stato occorrono 673 voti dei grandi elettori (parlamentari e regionali) nelle prime due chiamate e 505 dalla terza in poi.

Oltretutto, dato il clima generale – governo variopinto di solidarietà nazionale, con tutti dentro meno la Meloni e prossimo parlamento ridotto del 34% – si consiglierebbe vivamente di trovare un candidato super-partes e, dunque, votabile da una maggioranza molto larga. Insomma: non un esponente di partito, ma una personalità vissuta come punto di equilibrio e in grado di riscuotere un vasto consenso popolare. Già uno c’è, dicono in molti, e si chiama Mattarella.

L’ultimo a farsi portavoce di un sentimento popolare è stato Roberto Benigni, che ha sanzionato a Venezia l’idea che alcuni leader politici hanno gettato in campo, un po’ per prendere tempo, un po’ perché ci credono, un po’ per esaurimento di altre risorse. Qualche volta, tra l’altro, in modo assai maldestro, con un invito tipo: fatti rieleggere e poi, dopo che Draghi ha finito col Pnrr, lasci il posto a lui.

Senonché il Capo dello Stato, che è già succeduto a un presidente rieletto e non ha nessuna voglia di instaurare una nuova prassi costituzionale in questo senso, ha detto a chiare lettere che non ci sta, citando i predecessori Segni (e Leone) che chiedevano una riforma costituzionale per impedire il settennato bis.

Sette anni sono già molti e la ragione per cui il Costituente non inserì il divieto nella Carta più che essere dettata da una visione coerente con un’idea specifica del ruolo presidenziale, fu dovuta al contrasto politico tra Dc e Pci, impersonati da Moro e Togliatti, che finì zero a zero e lasciò indefinita la questione.

Da quella indefinitezza deriva la rielezione di Napolitano (manifestamente riottoso, fin dal suo discorso di accettazione davanti alle Camere). Allora ha ancora senso insistere con Mattarella nel chiedere un sacrificio di un bis? Forse la cosa potrebbe avere senso se la politica si impegnasse da subito a mettere in campo e a votare con la procedura della legge costituzionale la riforma che impedisca il secondo mandato, così come ha chiesto, in prosa e in musica, lo stesso Capo dello Stato.

In questo caso avrebbe una sua plausibile dignità l’invito rivolto al Presidente di accettare il reincarico, argomentando intorno alla complicatissima transizione politico-istituzionale e nella prospettiva del mutamento costituzionale da lui stesso- aggiungeremmo, con giusta ragione- proposto. Se non volesse saperne almeno avremmo fatto una riforma necessaria.

Del resto la faccenda della revisione costituzionale potrebbe risolverla questo Parlamento con una certa velocità, se ne avesse voglia veramente. Un esempio per tutti? La riforma costituzionale dell’art.81 risolse tutti i passaggi in meno di cinque mesi. Tanto, infatti passò dal primo voto alla Camera del 30 novembre 2011 all’ultimo del 18 aprile 2012. Come si dice, “quando c’è la volontà politica”…

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