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Per la verità, contrariamente a quanto scrive Antonio Mastrapasqua, non è solo Veronica De Romanis a preoccuparsi dell’andamento del debito. O meglio del rapporto debito/Pil, che poi è la vera grandezza statistica che conta. Parlare del debito pubblico, limitatamente al suo valore nominale e quindi osservarne la crescita, destinata inevitabilmente a macinare ogni anno nuovi record, non ha molto senso. Serve solo a strappare un titolo preoccupato su qualche giornale.

L’interrogativo a cui rispondere è: “Nello stesso intervallo di tempo come è andato il Pil? È cresciuto più o meno del debito? E di conseguenza quel rapporto è aumentato o diminuito?”. Potrebbe, infatti, verificarsi il caso che il debito, in termini nominali, diminuisca. Ma il Pil cadere in misura maggiore. E allora sarebbe un guaio ancor più preoccupante. Sarebbe il segnale di una deflazione, dalle conseguenze non solo economiche, ma sociali devastanti.

Per questo Mario Draghi ha voluto distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”. Il primo è quello che si ripaga da solo. Fa crescere il Pil nominale in misura maggiore del tasso di incremento del debito. In tal modo le entrate dello Stato aumentano e consentono di pagare gli interessi, mentre il rapporto meccanico tra un numeratore che cresce meno del denominatore fa la differenza.

Equilibrismi statistici dallo scarso fondamento? Basta pensare a una famiglia o a un’azienda. La sua capacità di indebitamento si misura sulla base delle entrate future. Che a loro volta dipendono dalla crescita delle retribuzioni dei suoi membri o dall’aumento dell’attivo della società. Per la Pubblica amministrazione la logica è la stessa. Cambia solo la dimensione di scala e la relazione di causa/effetto tra la politica economica seguita e le sue possibili conseguenze.

Il “debito cattivo” è quello che non serve allo sviluppo. In questa definizione non c’è alcuna accezione negativa. Marca solo una differenza: nel primo caso, come già detto, si ripaga. Utilizzando le vecchie categorie di Paul Sweezy, un vecchio economista di formazione marxista, quel debito aumenta il “surplus” che serve a pagare il debito. Nel caso contrario, invece, il nuovo debito pesa sul “surplus” già esistente. Consuma risorse, senza rigenerarle.

L’enfasi riposta, in passato, sulla spending review e richiamata anche nell’intervento di Mastrapasqua, scontava quel sistema di equazioni. Un Pil sostanzialmente stazionario, se non in flessione. Un tasso di inflazione molto contenuto. Da qui la necessità di ridurre la spesa, per aumentare l’avanzo primario (differenza tra le spese complessive al netto degli interessi e le entrate) grazie al quale pagare un rata di ammortamento (debito ed interessi) più consistente.

Nonostante i mille tentativi, il cambiamento dei soggetti chiamati a realizzarla, l’impegno diretto del premier (Mario Monti), i risultati, tuttavia, sono sempre stati, per usare un eufemismo, più che modesti. Spiegazione relativamente semplice. La spesa complessiva italiana, al netto degli interessi, è pari, se non inferiore alla media europea. Risulta maggiore di un paio di punti di Pil, solo a causa della più elevata spesa per interessi. A sua volta conseguenza del secondo maxi debito europeo. Un serpente che si morde la coda.

Si deve solo aggiungere che in una società tendenzialmente stazionaria, come quella italiana, tentare di riordinare la spesa pubblica è un’impresa quasi impossibile. Coalizza, infatti, tutte le possibili resistenze sociali, nella difesa del proprio status. Resistenze che possono essere vinte più facilmente se, in qualche modo, l’ascensore sociale si rimette in moto. Alimentando il gusto per quel rischio, e quindi per il possibile cambiamento, che nasce dalla percezione di aver di fronte maggiori opportunità.

Discorsi troppo astratti? Lo sarebbero se non fossero confermati dall’esperienza empirica. Non vogliamo ricorrere al linguaggio dei numeri (sempre complicato). Ma ricordare un passo della relazione del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nel maggio 2017, quando il rapporto debito/Pil aveva raggiunto quota 135 per cento.

“Dal 2008 l’incremento del rapporto tra debito e Pil è stato essenzialmente determinato dalla dinamica sfavorevole di quest’ultimo. Se il prodotto fosse cresciuto in termini reali al tasso medio, pur contenuto, degli anni compresi tra l’avvio dell’Unione economica e monetaria e l’inizio della crisi finanziaria e se l’aumento del deflatore fosse stato in linea con l’obiettivo di inflazione della BCE, per il solo effetto di un denominatore più elevato il rapporto tra debito e prodotto sarebbe oggi analogo a quello del 2007. In assenza della crisi, la maggiore crescita avrebbe anche consentito di ottenere disavanzi inferiori e non sarebbe stato necessario prestare sostegno finanziario ad altri paesi; ne sarebbe risultato un rapporto tra debito e prodotto ancora più basso”.

E allora caro Mastrapasqua, continuiamo pure a discutere. Ma focalizzando il tema. Non basta stracciarsi le vesti, nel constatare che il debito pubblico continua ad aumentare in valore assoluto. Occorre invece misurarsi sulle ricette più giuste ed opportune per far diminuire il rapporto debito/Pil. Possiamo puntare sulle crescita del denominatore, grazie ad una politica di sviluppo ed un po’ più d’inflazione. Oppure inseguire il miraggio dell’austerità, inevitabilmente destinata ad alimentare la deflazione.

Detta così, sembrerebbe tutto fin troppo facile. Se non fosse per le contraddizioni della storia italiana. In cui il tema della crescita e dello sviluppo non ha mai occupato il posto che gli spettava.

Il debito cresce? Non stracciamoci le vesti ma... La ricetta di Polillo

Non basta stracciarsi le vesti, nel constatare che il debito pubblico continua ad aumentare in valore assoluto. Occorre invece misurarsi sulle ricette più giuste ed opportune per far diminuire il rapporto debito/Pil. L’analisi di Gianfranco Polillo in risposta a Mastrapasqua

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