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C’è qualcosa di storicamente singolare e geopoliticamente inatteso nel tour di Joe Biden in Europa, partendo dalla Cornovaglia passando per Bruxelles per terminare a Ginevra, nel quale incontrerà il presidente turco Recepp Erdogan e poi quello russo Vladimir Putin.

Singolare è il rinnovo con Boris Johnson del patto anglosferico in terra inglese, mano nella mano, mariti e mogli. Quasi una ripresa immaginifica dell’alleanza che su quella sponda strategica, con la Francia gaullista e la grande Inghilterra imperiale, si cementò per sconfiggere il male assoluto nazista.

Inutile indugiare nella singolarità storica, perché sarebbe troppo facile. Così come Wilson a Versailles e Roosevelt a Teheran e a Yalta, anche questa volta – fortunatamente solo con la diplomazia e con l’economia – è la Germania a essere declassata nelle cerchie del regime vassallatico del nuovo multipolarismo Usa che Biden inaugura con questo tour à la Metternich.

Mi spiego: grazie all’accordo con quel puro genio che fu Tayllerand, Metternich stroncò per sempre Napoleone ma non umiliò la Francia. La casa d’Orleans fu l’artefice dinastica di una restaurazione che oggi in Germania non è possibile. Il prossimo indebolimento della Cdu è inarrestabile – i dati recenti in Sassonia-Anhalt vanno ben oltre il crollo anche fisico della Cancelliera Angela Merkel – e non si vede come quel dominio deflazionistico e nazionalistico felpato potrà essere sostituito.

La Francia è una potenza imperiale priva di mezzi, e le aristocrazie dell’ancien régime sfortunatamente non dominano più il mondo. Ma è altresì l’unica potenza talassocratica e nucleare europea, sempre protesa a indicare all’Europa il suo vero destino: l’Africa.

Non la Cina, disastrosamente scelta come orizzonte strategico dalla più grande potenza terrestre del Vecchio Continente, la Germania. La prospettiva cinese è diventata negli anni un punto archetipale della corsa tedesca al dominio europeo e mondiale che negli ultimi tempi una serie di ostacoli sul percorso, dal “Diesel gate” alle gaffe sullo spionaggio russo fino alla pandemia, hanno drasticamente rallentato.

Così come va spegnendosi il primigenio amore tedesco per le esercitazioni militari cinesi e la nuova “Via della Seta”. Commerciare, si stanno rendendo conto in Germania, è cosa diversa dalla proiezione militare di una improvvisata potenza marittima come quella tedesca, costantemente sull’orlo di un crollo multiforme. E quella cinese è stata una scommessa sbagliata per Berlino. Più ancora di una illusoria primazia economico-tecnologica, sarà la caduta della dittatura cinese il vero problema per il futuro dell’Europa e dei Paesi che vi hanno fatto affidamento.

Nel suo viaggio in Europa Biden delinea un multipolarismo decisamente nuovo, simile a quello andato in scena nel secondo dopoguerra. Incontra Erdogan, ma stringe al contempo legami più stretti con la Grecia: un vero capolavoro di diplomazia.

Al posto del Piano Marshall ora ci sono i vaccini e la potenza del complesso militare-industriale Usa che deve riparare i danni lasciati da anni di unipolarismo. Lo stesso su cui David Calleo ha scritto pagine indimenticabili, come quelle che dedicò al genio di Kissingher e Nixon, che seppero fare della frammentazione di un mondo bipolare scosso dalla sconfitta del Vietnam un motivo di riassestamento delle relazioni internazionali grazie all’avvicinamento alla Cina in funzione anti Urss.

È esattamente ciò che si appresta a fare il gruppo di potere americano raccolto attorno a Biden nel nuovo parallelogramma mondiale delle forze statuali. Non a caso alla fine del tour Biden incontrerà Putin, e forse un nuovo spiraglio kissingheriano porterà la luce della diplomazia dopo quell’oscurità (interrotta solo dai lampi dell’ultimo Barack Obama) che è iniziata con Clinton ed è esplosa con i Bush in Iraq per poi deflagrare ovunque con Trump (con risultati non trascurabili nei confronti della Cina).

Come in una giostra di cavalieri meccanici antichi e moderni insieme, ha così inizio un nuovo multipolarismo. Non è un caso che in questa profonda riclassificazione delle interconnessioni mondiali e di quella nord-americana con le medie potenze e i piccoli Stati europei, il leader di riferimento per le questioni economico-finanziarie in questo G7 tanto suggestivo sia il pontiere italiano Mario Draghi.

È forse è un presagio che la riforma dei trattati europei teutonici  – che hanno gettato in ginocchio tutta l’Europa e sprofondato il mondo nella deflazione secolare – è prossima, così come prossima è l’unica forma politica che può salvare l’Europa, lasciando al suo destino l’Ue funzionalista: una Costituzione federale europea, con una vera Banca centrale sotto lo sguardo benevolente degli Usa. L’arrivo di Draghi rappresenta, in questo senso, un buon segnale per l’Europa storica e l’Italia presente.

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