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Leggendo le notizie sulla sperimentazione nella regione Lazio di Sputnik V, il vaccino che la presidente del board dell’Ema ha definito una “roulette russa” finché non sarà completato il processo di autorizzazione, una domanda mi rimbalza in testa. Perché proprio Sputnik? Ovvero, ci sono quattro vaccini già autorizzati in Europa (Pfizer/Biontech, Moderna, AstraZeneca, Johnson & Johnson), perché l’eccellenza della ricerca sulle malattie infettive (l’ospedale Spallanzani di Roma) deve mettere le proprie risorse e competenze al servizio di un farmaco che al momento non potremmo usare e che la Russia ha promesso a 50 paesi senza aver ancora vaccinato un numero sufficiente dei suoi cittadini?

Le autorità russe finora non hanno aperto i siti di produzione agli ispettori europei (dovrebbero poter entrare il 10 aprile) ma noi apriamo le nostre strutture sanitarie ai ricercatori russi (come avvenuto a Bergamo nel pieno del primo lockdown). Non è solo una questione politica, strategica o di reciprocità. È una questione a medio-lungo termine.

In Italia c’è una parte di produzione di AstraZeneca – come è emerso quando Draghi ha bloccato l’esportazione di 250mila dosi da Anagni verso l’Australia – un vaccino sviluppato con il contributo della Irbm di Pomezia. La Patheon Thermo Fisher di Ferentino e Monza ha sottoscritto il primo accordo per la produzione di un vaccino a mRna in Italia. Altre aziende si stanno muovendo nel contesto della collaborazione tra il ministro Giorgetti e Farmindustria. In Europa dovremo incrementare la produzione, considerando che il coronavirus non sparirà nel giro di pochi mesi, e in questi giorni dobbiamo decidere quali tecnologie adottare e quali aziende scegliere per fare investimenti che avranno un impatto decennale.

Il commissario Breton ha tagliato corto sulla questione, affermando che “l’Europa farà a meno di Sputnik”, non volendo fare il gioco della propaganda di Mosca, tesa a sfruttare le debolezze della campagna vaccinale europea per indebolire la fiducia nelle istituzioni democratiche che – a leggere l’iperattivo profilo Twitter di Sputnik – sarebbero meno efficienti di quelle autoritarie.

Sarebbero, visto che le campagne più di successo sono proprio quelle dei paesi con una consolidata tradizione liberal-democratica: Regno Unito, Stati Uniti, Israele. Mentre in Russia ad aver ricevuto due dosi di Sputnik è solo il 3,5% della popolazione (5,4% la singola dose).

Così Formiche.net ha contattato il dottor Guido Rasi, già direttore esecutivo dell’Ema, per capire quale strategia sanitaria e industriale l’Italia potrà e dovrà adottare.

Dottor Rasi, come mai la regione Lazio si prepara a stringere accordi con Gamaleya, l’istituto russo che produce Sputnik?

È chiaro che la Russia ha interesse a tenere alta l’attenzione e l’interesse intorno al suo vaccino. È alla ricerca di siti produttivi, non essendo sufficienti quelli in patria. In più c’è il collo di bottiglia delle due dosi, che sono una diversa dall’altra, cosa che raddoppia le linee produttive e costringe a una sperimentazione più complessa.

Le aziende italiane, magari con il sostegno del governo, non potrebbero chiedere le licenze degli altri vaccini, già autorizzati?

Non basta ottenere la licenza, ci vuole la volontà di compiere un trasferimento tecnologico. Servono gli esperti che hanno sviluppato il farmaco, e non tutte le case farmaceutiche in questo momento possono permettersi di allargare la produzione a nuovi siti, soprattutto all’estero. I laboratori russi, a quanto pare, possono farlo, non avendo capacità produttiva sufficiente. E hanno trovato qualcuno pronto ad accoglierli.

Ecco, ma dovendo partire da zero, perché in Italia abbiamo di fatto smantellato la nostra capacità di produzione vaccinale, non sarebbe meglio farlo con aziende che sono già avanti nella fase sia di produzione che di autorizzazione? Cosa serve per iniziare?

I tempi di consegna di un bioreattore nuovo sono di 6-8 mesi. Poi è necessaria la riconversione e la messa a punto delle linee produttive, infine la certificazione. Un processo di 12-14 mesi. Parlando di spesa, un bioreattore costa 5-600 mila euro, mentre riconvertire uno stabilimento per produrre a pieno regime – includendo bulk, essicazione, filtrazione e infialamento – costa fino a 20 milioni di euro. Dunque varrebbe la pena anche per piccole e medie realtà industriali, per consorzi, entrare in un mercato, fare esperienza e portare avanti un’azione commerciale che avrebbe frutti per anni a venire.

Oltre un anno per distribuire le prime dosi. Non rischiamo di arrivare troppo tardi? Solo in India ci sono aziende in grado di sfornare centinaia di milioni di dosi.

Dobbiamo ragionare con due orizzonti temporali. Il primo è a due-tre anni. Questo virus con le varianti che stiamo osservando durerà almeno un altro anno e mezzo. Quindi andranno somministrati miliardi di dosi. Con simili volumi, non manca lo spazio per chi vuole investire.

E poi, raggiunta un’immunizzazione sufficiente, cosa succederà?

Il virus probabilmente continuerà a mutare, ma non sappiamo se in meglio o in peggio. Ci potranno essere reinfezioni, nuovi focolai, e andrà rimodulata la produzione. Ma una volta partita la catena, sarà molto più facile. Non bisognerà rifare gli studi clinici se si usa lo stesso vettore, e di fatto l’impegno sia scientifico che economico sarà ridotto del 50%. Per questo avere una produzione locale che garantisca forniture a medio-lungo termine ha senso, senza dipendere esclusivamente dall’estero.

Quindi è giusto mettersi a produrre Sputnik?

Commercialmente, se ci fosse un gruppo di investitori che a livello regionale intende produrre un po’ di dosi, non ci vedrei grossi problemi. Ma se dovessi pensare a una strategia industriale nazionale, farei un investimento pesante nel futuro e non nel passato. E Sputinik, proprio come gli altri vaccini ad adenovirus, è stato superato dalla tecnologia a mRna. Così innovativa da aver preso in contropiede anche aziende che erano leader nei vaccini e invece arriveranno molto dopo Pfizer e Moderna (due “debuttanti”) nella distribuzione delle loro fiale anti-Covid. Pensi che nella cosiddetta pipeline dell’Ema, tra i farmaci in fase di sperimentazione, ce n’erano molti a mRna che avevano l’obiettivo di curare tumori e malattie rare. Ma lo sviluppo era molto difficile perché la piattaforma era sperimentale e non industriale. Ora che si producono vaccini a 20 euro, sulla tecnologia di base l’investimento è stato fatto. La piattaforma c’è. E potrà essere allargata a molti altri campi.

 

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