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Un articolo del New York Times anticipa un’inchiesta della International Federation of Journalists (IFJ) di Bruxelles sulla proiezione della Repubblica Popolare cinese sui media occidentali. E l’Italia, come facilmente prevedibile, non ne esce bene.

“I giornalisti italiani hanno affermato di aver subito pressioni per pubblicare il discorso di Natale del presidente Xi Jinping e di aver ricevuto una versione tradotta in italiano.”

“Il vicedirettore dell’Agenzia Ansa, Stefano Polli, ha affermato di aver visto la Cina utilizzare sempre più i media per avere maggiore influenza nel nuovo equilibrio geopolitico. Ma ha difeso il contratto del suo servizio per tradurre e distribuire Xinhua (la principale agenzia di stampa cinese, controllata dal Partito Comunista cinese) – criticato nel rapporto dei giornalisti internazionali – come un normale accordo commerciale.”

Ricordiamoci delle dichiarazioni di Polli quando tra qualche anno, o mese, ci verranno a parlare della necessità di “salvare” l’Ansa.

L’Ansa pur non essendo direttamente finanziata dallo Stato ha nella convenzioni con le varie istituzioni locali e nazionali , aziende partecipati e simili, la principale fonte di introito. Quindi noi paghiamo – indirettamente in una maniera o nell’altra – l’attività dell’Ansa che decide di raccontare la Cina, ossia il Paese descritto dagli analisti come il principale attore economico e strategico dei prossimi decenni, pubblicando le veline ricevute da Pechino. Basta aprire il “Notiziario Xinhua” sul sito dell’Ansa per trovarsi subito in un’atmosfera da Fascisti su Marte. Le notizie dalla Cina non sono esclusivamente quelle della Xinhua e ognuna delle veline arrivate da Pechino è contrassegnate da un’apposita scritta. La scelta dell’Ansa è legittima ma pone seri dubbi sulla capacità dell’agenzia di “fare giornalismo”.

Quanto può pesare quel contratto nella comunicazione degli eventi dal territorio cinese? Un partner commerciale che è anche un competitor strategico – abbiamo applicato il Golden Power unanimemente di fronte alla tentata acquisizione di aziende strategicamente rilevanti – può acquistare spazi di comunicazione alla stregua di un’azienda? Soprattutto le istituzioni che sostengono economicamente l’Agenzia attraverso le convenzioni avvallano in questa maniera la scelta di comunicare gli interessi cinesi sul territorio italiano?

L’articolo del NYT prosegue arrivando a un tema cruciale di cui si parla troppo poco: “Luca Rigoni, un importante giornalista di Mediaset, ha detto che la sua testata giornalistica non aveva un proprio corrispondente nel Paese, ma un contratto formale con i media statali cinesi per i reportage dalla Cina. La collaborazione si è però interrotta dopo che ha riferito della teoria che il virus fosse trapelato da un laboratorio cinese.”

Come avevo fatto presente più volte negli scorsi anni i servizi “di costume” dalla Repubblica Popolare cinese arrivano preconfezionati in molte emittenti televisive italiane. Emittenti che ricevono un contributo video, risparmiando costi di produzione, e vengono pagate per trasmettere gli stessi contenuti. Un servizio che Pechino offre a diversi Paesi in giro per il mondo. Ricordo perfettamente un servizio sul Festival del Ghiaccio di Harbin visto alla televisione tailandese e ritrasmesso, doppiato, sui canali italiani. Le emittenti televisive private non sono obbligate a fornire i dettagli sulla provenienza e sulla produzione dei vari servizi. Parlando con giornalisti e redattori la questione dei servizi preconfezionati dalla Cina è ben nota, ma nessuno osa parlarne.

Si tratta di servizi dai contenuti assolutamente neutri, vengono trattati argomenti di costume, spesso legati alla bellezze naturali o architettoniche della Cina. Nessuno dei giornalisti o dei redattori ha mai percepito un elemento di pressione politica in questi contributi.

Innanzitutto negli scorsi anni la RPC ha creato una narrazione potente della crescita economica del Paese. I servizi sui pittoreschi ponti di vetro sospesi nel mezzo della natura e gli edifici costruiti dagli archistar hanno contribuito ad alimentare questa narrazione.

Soprattutto il Partito Comunista cinese è riuscito a generare una sorta di barriera protettiva di fronte a qualsiasi notizia proveniente dalla Cina. Gli accordi con le varie emittenti alimentano quella censura preventiva che troviamo in tutti gli atenei italiani, nelle scuole pubbliche dove si insegna cinese – e sono tante – le think tank e gli istituti di ricerca che si occupano di politica internazionale.

“Taiwan, Tibet e Xinjiang? Meglio lasciare perdere.” “Hong Kong, le deportazioni dei giornalisti occidentali e la repressione dei cristiani e dei musulmani? Solo se strettamente necessario.”

Ma solo sporadicamente c’è una formale protesta da parte dei committenti o dall’Ambasciata della RPC. Il più delle volte non c’è n’è bisogno: i ricercatori, i docenti e i giornalisti hanno imparato a soprassedere, a guardare dall’altra parte. I commenti e le notizie importanti arrivano ovviamente, la vicenda di Hong Kong è stata ampiamente trattata dei media occidentali e italiani.

Le numerose “collaborazioni” retribuite con le emittenti televisive, le summer school degli atenei, i sostegni alla didattica eccetera eccetera hanno creato un sistema impressionante di proiezione della Repubblica Popolare cinese in Italia. Per non parlare dei vertici della politica italiana che regolarmente si recano nella Repubblica Popolare cinese per conferenze strapagate.

Un sistema che definisce continuamente, piccolo passo dopo piccolo passo, la percezione della Cina. Mentre i professori, i ricercatori e i giornalisti nostrani pensano di essere immuni da tale influenza, protetti dalla millenaria cultura accademica italiana, dalla libertà di informazione e dai principi della ricerca scientifica, ogni giorno contribuiscono a creare una pericolosa deriva. Il caso australiano dovrebbe essere d’esempio.

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C’è un sistema che definisce continuamente, piccolo passo dopo piccolo passo, la percezione della Cina. Mentre i professori, i ricercatori e i giornalisti nostrani pensano di essere immuni da tale influenza, protetti dalla millenaria cultura accademica italiana, dalla libertà di informazione e dai principi della ricerca scientifica, ogni giorno contribuiscono a creare una pericolosa deriva. Il caso australiano dovrebbe essere d’esempio. L’opinione di Stefano Pelaggi

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