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Già ai tempi dell’accordo tra l’amministrazione Trump e i Talebani, gli esperti avevano di fatto previsto tutto: il ritiro dei soldati Nato e Usa dall’Afghanistan avrebbe aperto spazi per il ritorno degli insorti. Ma d’altronde, non esisteva possibilità diversa dal ritiro: l’Afghanistan, come ormai viene ripetuto in ogni articolo sul tema, è stata una guerra lunga quanto le due Mondiali e il Vietnam messe insieme: insostenibile ormai economicamente, politicamente, culturalmente.

Nella serata (italiana) di giovedì, dalla East Room della Casa Bianca, ne ha parlato anche il presidente statunitense, Joe Biden: “Dopo vent’anni di guerra […] chi di voi è pronto a mandare sua figlia o suo figlio su quel fronte?”, ha chiesto agli americani (che in molti casi è da vent’anni che avrebbero risposto “io no!”). “Mai più una generazione in guerra”, è il topos del discorso. La missione americana terminerà il ritiro il 31 agosto, ha annunciato il Commander-in-Chief, e per quel giorno è possibile che i Talebani avranno in mano ancora più territorio.

L’avanzata dei ribelli jihadisti è inarrestabile. Come ha ammesso lo stesso Biden, non sono mai stati così forti dal 2001, ossia da quando le forze americane entrarono in guerra in Afghanistan contro il regime talebano guidato dal Mullah Omar, colpevole di dare appoggio e copertura alla leadership di al Qaeda (da cui il mullah era visto come Amīr al-Muʾminīn). I qaedisti erano inseguiti dagli americani che volevano cancellare l’organizzazione di Osama bin Laden dalla faccia della Terra, perché responsabile della vile e sanguinosa strage del 9/11. Da lì la Nato attivò l’Articolo 5 sulla difesa collettiva, e la caccia fu portata avanti dall’intera alleanza.

La guerra afghana non è una missione compiuta (la Casa Bianca non vuole che venga usata questa espressione, e d’altronde a Washington ci si è resi conto da molto tempo che il conflitto non poteva essere vinto in senso pieno). Il presidente americano segna il perimetro: “estirpato” al Qaeda, “spedito all’Inferno Osama”, fatto in modo che non si ripeta un nuovo 11 Settembre. Questi i risultati. Tutto il resto non poteva essere negli obiettivi, ha spiegato: “Non siamo andati in Afghanistan per costruire una nazione”, frase che va contro la visione democratica-interventista ancora viva in parte del suo partito. Una posizione non nuova per il Biden politico, che già da vice aveva storto la bocca davanti all’ordine di Barack Obama di aumentare le truppe bel 2011.

Il presidente, davanti a una domanda specifica, ha detto di non fidarsi dei Talebani — presa di distanza dal suo predecessore che ha fatto di tutto per stringerci un accordo, che comunque nei fatti ha facilitato il lavoro al democratico. Altra domanda: l’arrivo dei Talebani a Kabul è inevitabile? Secondo Biden non lo è, per via di una presunta superiorità di forze da parte delle truppe regolari rispetto agli insorti. “Sono fiducioso che oggi l’Afghanistan, grazie al nostro aiuto e addestramento, abbia delle forze armate capaci di fronteggiarli”. Ma no, non è così: e sebbene l’esercito afghano è “ben equipaggiato come qualsiasi esercito al mondo”, come dice il presidente, la differenza la fanno le persone nei reparti.

Il racconto dell’avanzata talebana di questi giorni ne è testimonianza: i soldati afghani scappano in Uzbekistan, Pakistan, Tagikistan davanti all’arrivo degli insorti (d’altronde voi che fareste davanti alla scelta “fuga o morte”, consapevoli che senza la fuga non avete mezzi per evitare la morte?). Giovedì, mentre Biden parlava a Washington, nella provincia di Herat i Talebani prendevano il controllo del valico di Islam Qala costringendo le unità afghane a rifugiarsi oltre il confine, in Iran. La fuga dei soldati — a cui gli occidentali danno regole di pianificazione, ma non di condotta operativa — è un’immagine molto solida del disastro in corso. Ora i Talebani controllano i passaggi di confine con Tagikistan, Iran nelle ultime ore hanno conquistato quello col Turkmenistan.

Il punto, come ha fatto notare più volte su queste colonne l’esperto Claudio Bertolotti (Ispi), è che l’Afghanistan è in piena crisi istituzionale, che paralizza tutti settori dell’economia (se si esclude quello del traffico illecito di oppiacei). E questa crisi istituzionale si manifesta in primis sulle forze di sicurezza. La responsabilità dei vertici politici, prima ancora che militari, su quello che sta accadendo esiste: è pesante. Le ripercussioni pratiche devastanti: l’aliquota di coloro che tra le Forze armate afghane è in grado di operare autonomamente è limitata ai reparti di élite. Gli altri sono più o meno allo sbando, anche perché i reparti sono pervasi da corruzione e soprusi (i comandanti trattengono parte delle paghe dei sottoposti; si ruba di tutto per poi rivenderlo al mercato nero; Bertolotti racconta di casi in cui gli ufficiali fingono che soldati morti siano ancora in vita per continuare a prenderne lo stipendio).

“Non lasciamo solo il popolo afghano”, ha detto Biden, ma la guerra nel Paese è tra afghani. Gli Stati Uniti promettono però due generi di aiuti. I primi riguardano la necessaria sistemazione di coloro che hanno lavorato per i soldati americani come interpreti: rischiano punizioni da parte dei Talebani, devono essere protetti e tutelati e si pensa a visti speciali per farli rifugiare negli Usa — e non solo: 82 di loro (sono migliaia) sono arrivati a metà giugno in Italia inseriti, con le loro famiglie, in un programma di protezione voluto dal ministro Lorenzo Guerini. Secondo, un’iniziativa di carattere anche politico: gli Stati Uniti stanno studiando misure diplomatiche per facilitare i visti alle persone più esposte che potrebbero subire il ritorno talebano, nonché alle donne; i Talebani avevano infatti istituito un regime sharitico in cui erano usate varie forme di vessazioni contro le donne, l’amministrazione della vice presidente Kamala Harris non può lasciarle sole a un destino orribile.

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