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Il contesto sul campo in Iraq e Siria sta diventando un “major challenge”, come lo chiama commentandolo discretamente una fonte militare statunitense. Grande sfida di cui “è parte anche l’Italia”, che sulla sponda orientale del Mediterraneo allargato ha parte dei propri interessi nazionali — e delle missioni militari all’estero. Per esempio, tra pochi mesi i militari italiani prenderanno il controllo della missione anti-terrorismo della Nato in Iraq che ha sede a Baghdad, dove anche in questi giorni  le milizie sciite irachene sfogano il loro interesse nel mantenere costante e continuo il livello di ingaggio armato contro le forze occidentali (soprattutto americane).

Dal 6 giugno a oggi, 8 luglio, ci sono stati tredici attacchi con missili e droni-kamikaze contro basi irachene usate anche dagli occidentali. Nella notte tra mercoledì e giovedì è per esempio finita sotto attacco la Union III Forward Operating Base, che è il quartier generale alla Nato Mission in Iraq. Il 27 giugno e il 6 luglio sotto le armi che i Pasdaran forniscono ai miliziani iracheni c’è stato invece l’aeroporto di Erbil. Là, nel Kurdistan iracheno, le forze occidentali — tra cui un dispositivo dell’Esercito inquadrato nella Task Force Land — addestrano i Peshmerga.

Le unità di sicurezza curde hanno dimostrato tutto il loro valore nella lotta contro lo Stato islamico: ora i soldati italiani sono impegnati nel Kurdistan Mentoring Coordination Center per permettere formazione continua davanti a un problema, l’Is, strisciante e clandestino ma non del tutto risolto. La presenza dei militari dall’Italia, dagli Usa o da altri Paesi occidentali è legalmente legittimata tramite accordi col governo di Baghdad, ma per le milizie sciite sono forze di occupazione. Come durante la Guerra d’Iraq, ed è questa la ragione ideologica che usano par combatterle.

Più sul pratico le questioni sono due. La prima, interna: se le forze di sicurezza irachene riusciranno, grazie all’addestramento occidentale, a costruire una propria capacità completa allora il ruolo delle milizie verrà meno; i gruppi paramilitari sono stati integrati parzialmente nel sistema di sicurezza in Iraq dopo aver guadagnato galloni nella lotta ai baghdadisti, sono milizie collegate ai partiti, che spesso si muovono come una mafia, si sostituiscono allo stato seguendo i propri interessi e guadagni, che per altro in alcuni casi le vedono in competizione. Seconda questione, esterna: le milizie sono realtà indipendenti, ma hanno vari livelli di collegamento (e coordinamento) con l’Iran, e i Pasdaran le usano come moltiplicatore di influenza; fanno parte della partita tra Teheran e Washington, se dovessero venire meno mancherebbero alla panoplia del regime teocratico.

L’Iraq da anni è terreno di scontro in questo match, che sebbene con l’amministrazione Biden sia tornato a giocarsi anche sui tavoli negoziali, resta delicatissimo su quello militare. Un incidente, come l’uccisione di un soldato americano in uno di quegli attacchi, potrebbe portarsi dietro una reazione violenta che rischia di coinvolgere anche la Repubblica islamica. La Casa Bianca del democratico Joe Biden, nonostante continui a spingere i dialoghi con Teheran, ha già due volte (a febbraio e a giugno) ordinato bombardamenti contro le milizie collegate agli attacchi su Erbil. Ora offre tre milioni di dollari per aver informazioni sulle ultime azioni dei miliziani figliocci dei Pasdaran, e non è da escludere che nei prossimi giorni ci siano altri bombardamenti.

Non è nei piani di Washington l’escalation militare, ma davanti a certe situazioni non è evitabile; il rischio di sembrare troppo deboli è un costo inaccettabile. Nei giorni scorsi il Pentagono ha spiegato che l’ultimo attacco su Erbil era indirizzato verso un “obiettivo importante”: non viene specificato, ma dentro ce ne sono diversi. Le milizie hanno annunciato che abbatteranno degli aerei nella base del Kurdistan: si tratta di velivoli da logistica, come i quattro NH90 da trasporto italiani del Task Group Airmobile “Griffon”. Quella dei miliziani è propaganda che supera le proprie capacità operative, ma quando i missili rudimentali cadono dentro al compound della base, di notte, colpiscono a casaccio. I droni invece hanno un sistema Gps che li guida, e dunque maggiore efficienza: per questo la contraerea C-RAM anche l’altra notte è intervenuta per abbatterli.

A breve inizierà il travaso di assetti italiani dalla Coalizone anti-Is alla Nato Mission, “privilegiando in tal modo le attività di training e capacity building, peculiari della missione Nato” ha spiegato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini durante il “quadrangolare” sulle missioni internazionali. Un momento ulteriormente sensibile. L’Iraq, ha detto il ministro, per l’Italia è “un paese a elevata priorità strategica”, e lo è sia “sul piano degli equilibri regionali, sia a tutela dei nostri interessi nazionali” — l’import petrolifero italiano dall’Iraq ha superato quello libico, per dire. Guerini ha definito “critica” la situazione nel paese, sia sul piano socio-economico che securitario: nei giorni scorsi, durante la visita del premier iracheno a Palazzo Chigi, la Difesa ha ospitato il ministro iracheno, Jumaah Enad, per coordinare la linea.

Enad ha confermato come la presenza italiana nel Paese sia ben accolta, un ruolo che l’Italia giocherà direttamente nell’impegno che la Nato sta aumentando nel training e capacity building, ma anche indirettamente nella gestione di quei complicatissimi (dis)equilibri tra le forze all’interno del Paese. Tutto avviene dunque in un contesto locale e in una fase regionale piuttosto complicati, dove al pari di dinamiche stabilizzatrici nell’intero Mediterraneo Allargato si muovono realtà interessate alla destabilizzazione continua. Le stesse che dall’Iraq si proiettano nel Golfo — dove l’Italia ha anche aumentato la presenza con l’adesione alla missione europea Emasoh, il dispositivo aeronavale nazionale per attività di presenza, sorveglianza e sicurezza del lineamento talassocratico di Hormuz.

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