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Quella di Enrico Letta come nuovo segretario dei democratici è sicuramente una scelta forte, non fosse altro che per i ruoli da lui ricoperti in passato sia nel partito sia nello Stato.

Che possa sortire effetti positivi per il Partito Democratico, è tutto da vedere. Una vera sfida. È vero, infatti, che le dimissioni di Nicola Zingaretti erano consequenziali alle scelte politiche fatte, dai risultati politicamente fallimentari, nell’ultimo anno e mezzo, ma è anche vero che il problema del Pd è per così dire strutturale, o identitario se preferite. Che il partito si sia ridotto a un “poltronificio”, come ha dovuto ammettere persino l’ex segretario (con una “picconata” che non si era mai vista da parte di un leader), e a una lotta fra correnti finalizzata a questo obiettivo, è a ben vedere solo la conseguenza del vuoto identitario.

A mala pena coperto pubblicamente da qualche iniziativa sui cosiddetti “diritti”, tipo la legge Zan, anch’essa poi non approdata al (discutibile) risultato finale. Parlare vagamente di sviluppo, sostenibilità, giustizia, inclusione, cittadinanza democratica, e non fare di solito proposte concrete, è spia evidente di questo deficit. Ora, avere una identità significa avere un programma. Ma avere un programma si può solo se si hanno ben presenti quali sono i propri ceti sociali di riferimento, ovvero si sa quali sono gli interessi oltre che i valori (generici) che si rappresentano. Quali quelli del Pd? Quelli dei ceti popolari, come era logico per la sinistra di un tempo? Dalla geografia del voto delle ultime tornate elettorali sembrerebbe proprio di no.

Così come nemmeno si può dire che siano i nuovi deboli, tutti i “precari” che la nostra società produce, il centro dell’azione politica democratica. Risolvere il problema dell’identità, significa anche affrontare in modo meno rapsodico il problema delle alleanze politiche. Quale è, per fare un esempio, il senso da dare a quella coi Cinque Stelle? Tradotto in scelte politiche concrete, sarà da considerarsi un’alleanza strategica o meramente tattica? Che Nicola Zingaretti l’abbia concepita nel primo modo, cioè come “alleanza strutturale”, e abbia lavorato (con pochi successi anche in questo caso in verità) in questa direzione, è evidente.

Abbia lavorato, e lavorerà ancora all’interno del Partito, seppure in un altro ruolo, sembra di capire. L’ingresso dei grillini nella maggioranza regionale laziale, avvenuto proprio nelle stesse ore in cui Letta scioglieva la riserva, è un segnale fin troppo preciso lanciato ai suoi dall’ex segretario. Ma non c’è il rischio, nel legarsi troppo ai Cinque Stelle, di “snaturarsi” e diventare un partito che introietta quote abbondanti di “populismo”? E, piuttosto che accompagnare i grillini nella “maturazione”, non si rischia di allentarne il declino, costruendo le fortune di un alleato sì, ma anche un concorrente a sinistra? Per formazione e cultura, Letta è quanto di più lontano si possa immaginare dai Cinque Stelle. Ma se, come è presumibile, egli darà una maggiore impronta moderata al suo partito, non verrà per forza di cose ad incontrarsi con quell’area centrista che va da Carlo Calenda a Matteo Renzi?

Come verrà concepito questo incontro? E i fattori personali quanto conteranno nei rapporti con Renzi e Italia Viva? Letta ha fatto cenno in queste ore allo “spirito dell’Ulivo” e riferimento “al popolo della sinistra”. È un buon proposito. Ma alle parole devono seguire i fatti. Per l’ennesimo leader dei democratici scelto dai vertici e non dai militanti, e non passato attraverso una prova elettorale, sicuramente una persona per bene e capace, la sfida della realtà sarà molta dura. Le domande, come abbiamo qui viste sono tante; le risposte, come sempre, affidate al futuro.

Pd, la sfida di Letta si chiama identità. La bussola di Ocone

Ora, avere una identità significa avere un programma. Ma avere un programma si può solo se si hanno ben presenti quali sono i propri ceti sociali di riferimento, ovvero si sa quali sono gli interessi oltre che i valori (generici) che si rappresentano. Quali quelli del Pd? Quelli dei ceti popolari, come era logico per la sinistra di un tempo? Dalla geografia del voto delle ultime tornate elettorali sembrerebbe proprio di no. La rubrica di Corrado Ocone

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