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Ci sono crisi internazionali che esplodono all’improvviso. E altre, come quella oggi tra India e Pakistan, che sono il risultato inevitabile di percorsi politici e culturali ben definiti.

L’attacco terroristico nella valle di Baisaran, nel Kashmir indiano, con 26 civili uccisi, è stato il detonatore. Ma la miccia era pronta da tempo.

La risposta del primo ministro Narendra Modi non è stata solo militare o diplomatica. È stata prima di tutto politica. Modi, che già nella campagna elettorale del 2024 aveva promesso un’India forte e fiera della propria identità induista, ha colto l’occasione per accelerare la trasformazione nazionale che porta avanti da anni: un’India coesa attorno alla cultura maggioritaria, decisa a non cedere terreno su nessun fronte, a partire proprio dal Kashmir.

Da qui la sospensione del Trattato delle Acque dell’Indo, fondamentale per l’agricoltura pakistana; l’espulsione di diplomatici; la chiusura dei valichi; e, soprattutto, il rilancio di una postura di forza, sorretta anche da un arsenale nucleare di tutto rispetto.

L’India oggi dispone di circa 172 testate nucleari, una triade di vettori – terrestri, aerei e navali – e un’ambigua revisione in corso della storica dottrina del “no first use”. In poche parole: Nuova Delhi sta lasciando intendere che, se costretta, potrebbe essere pronta ad essere la prima a colpire.

Ma l’altra faccia della crisi si chiama Pakistan. E non è un attore passivo.

Il nazionalismo pakistano, forgiato sull’identità islamica del Paese sin dalla nascita nel 1947, è fortissimo. Islamabad considera il Kashmir non solo una disputa territoriale, ma un punto d’onore nazionale, un simbolo di unità religiosa e culturale.

Leader come Syed Ali Shah Geelani, celebrato in Pakistan come eroe della causa kashmira, hanno incarnato questo sentimento. Il governo di Islamabad sostiene politicamente e moralmente la “liberazione” del Kashmir, mentre lo slogan “Pakistan Zindabad” – lunga vita al Pakistan – risuona come grido di resistenza.

Anche militarmente il Pakistan si presenta pronto: circa 170 testate nucleari, con un rapido aumento previsto, armi tattiche schierate, e nessun impegno alla politica di “no first use”. Recenti dichiarazioni ufficiali hanno reso esplicito il messaggio: “130 testate sono puntate sull’India”. Una minaccia che non può essere ignorata.

Il rischio di escalation è concreto e altissimo. Gli scontri lungo la Linea di Controllo (LoC) sono ripresi. L’India ha effettuato test missilistici dalla sua Marina. Il Pakistan ha chiuso il proprio spazio aereo ai voli indiani. E mentre le cancellerie occidentali lanciano appelli alla moderazione, sul terreno la logica degli orgogli nazionali rischia di prevalere sulla diplomazia.

In definitiva, il conflitto India-Pakistan non nasce solo da un attentato. È il risultato di due visioni del mondo contrapposte e radicalizzate:

– da un lato, l’India di Modi, che vuole essere l’India degli induisti;

– dall’altro, il Pakistan, che difende il suo ruolo di baluardo islamico nella regione.

Due nazionalismi, due arsenali nucleari, una frontiera contesa.

Sappiamo che tanto New Delhi quanto Islamabad non vogliono la guerra vera e propria (nessuno conosce quale sarebbe il costo sotto ogni punto di vista), ma sappiamo anche che la tensione con il detestato “vicino di casa” serve tanto alla leadership indiana quanto a quella pakistana.

Il “nemico alle porte” fa sempre comodo.

India e Pakistan, la crisi che il mondo non può ignorare. Il commento di Arditti

Sappiamo che tanto New Delhi quanto Islamabad non vogliono la guerra vera e propria, ma sappiamo anche che la tensione con il detestato “vicino di casa” serve tanto alla leadership indiana quanto a quella pakistana. Il commento di Roberto Arditti

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