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La storia è un fiume in piena, scorre veloce e inarrestabile, spesso anche imprevedibile. La caduta del Muro di Berlino non fa eccezione. Quella sera di trentacinque anni fa, tra i balbettii del portavoce della Ddr Günter Schabowski, lo sbando dei Vopos e l’esultanza incredula di migliaia di donne e uomini che sciamavano liberi verso l’ovest, la realtà superò di molto ogni immaginazione. Solo pochi giorni prima, il segretario del Partito comunista Erich Honecker, nel quarantesimo anniversario della nascita della Germania est, aveva declamato “la Ddr durerà per altri quarant’anni e anche di più”, ignaro che il regime stava crollando come un castello di carte. Non fu certo il solo.

Pur tra le tensioni di quei mesi, in Germania orientale e negli altri Paesi dell’est nessuno aveva messo in conto quella svolta epocale, destinata a segnare il destino di milioni di tedeschi ed europei. Straordinario fu anche il traguardo della riunificazione, fissato con coraggio da Helmut Kohl e raggiunto in tempi strettissimi (328 giorni) con un negoziato complesso e pieno di insidie. Per molti fu la realizzazione di un sogno, la liberazione attesa a lungo, l’appagamento di un desiderio per troppo tempo soffocato (“Cresce insieme quello che deve essere unito”, urlò commosso Willy Brandt).

Per qualcuno, in Europa, quel passaggio fu invece motivo di apprensione o di contrarietà, per i timori – infondati – circa l’affidabilità di una Germania unita e il mantenimento dell’equilibrio di forze. Non a caso nel 2009, a celebrare con lui il ventesimo anniversario della caduta del muro, Kohl invitò a Berlino solo George Bush senior e Michail Gorbačëv. È passata una generazione, il mondo è cambiato. Speranze e illusioni di un tempo hanno lasciato il posto a sfide inedite, minacce e paure.

L’assetto bipolare, scomparso con i detriti del Muro di Berlino, è un ricordo sbiadito. L’idea, irrealistica, di una gestione planetaria unipolare degli Stati Uniti è stata rapidamente archiviata, anche sotto la pressione di nuovi attori determinati ad acquisire responsabilità e visibilità maggiori sulla scena mondiale. Finito il bipolarismo, superata la breve stagione dell’unipolarismo con i suoi limiti e le sue criticità, oggi il mondo è alle prese con un disordine globale gravido di rischi. Non perché a reclamare un ruolo incisivo ora si affaccino comprensibilmente Paesi in ascesa sul piano strategico, ma perché la nuova rete multipolare, appena abbozzata, inizia a muoversi senza una condivisione di princìpi e regole riconosciute.

L’equilibrio e un certo modus vivendi sono stati sostituiti da un revisionismo privo di remore e dalla contestazione di alcune architravi fondamentali dell’ordine internazionale, codificate nello statuto delle Nazioni Unite. Princìpi consolidati come il rispetto dell’integrità territoriale degli Stati e il ripudio dell’uso della forza per dirimere controversie internazionali sono purtroppo stati violati in base a un relativismo improvvido e strumentale. Il che priva la comunità internazionale di garanzie certe e opponibili e sconvolge pericolosamente il quadro della convivenza tra gli Stati.

Da quasi tre anni assistiamo sgomenti a una guerra senza fine nel cuore dell’Europa, scatenata dalla Russia contro l’Ucraina in palese violazione del diritto internazionale, condannata dalla maggioranza dei Paesi ma sulla quale vari altri protagonisti sulla scena mondiale hanno preferito astenersi. Eppure, la solidarietà e la tutela a favore di un Paese sovrano, per giunta formalmente garantito nella sua integrità proprio dall’aggressore, dovrebbe essere parte del patrimonio comune della comunità internazionale, da preservare al di là di schieramenti o ideologie: il dialogo con gli indecisi va coltivato.

L’incapacità di fermare l’aggressione di Mosca e l’irrilevanza dei meccanismi disponibili all’Onu per ricercare una soluzione di pace danno la misura del problema. Anziché considerare ineluttabili i terribili sviluppi della guerra di Vladimir Putin, ai quali da un anno si sono aggiunti gli scontri cruenti in Medio Oriente seguiti al massacro del 7 ottobre da parte dei terroristi di Hamas, occorre rivedere a fondo i paradigmi della sicurezza collettiva e ridefinire, attraverso il negoziato, impegni vincolanti nell’interesse comune.

Se la ricerca di un nuovo ordine internazionale dovrà essere condotta con il metodo del dialogo e della condivisione, non si dovranno nascondere difficoltà e condizioni essenziali. La riunificazione tedesca offre qualche spunto interessante. È opinione diffusa che a favorire la caduta della cortina di ferro non fu la distensiva Ostpolitik tedesca, bensì la pressione economica e militare degli Usa e la fermezza del Papa polacco, Giovanni Paolo II, a difesa di Solidarność. Per la stabilizzazione, che l’Europa deve promuovere nel suo interesse, non si potrà prescindere da un’appropriata dimensione di difesa e sicurezza, non solo militare ma economica ed energetica, e da una deterrenza efficace.

Formiche 208

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È opinione diffusa che a favorire la caduta della cortina di ferro non fu la distensiva Ostpolitik tedesca, bensì la pressione economica e militare degli Usa e la fermezza del Papa polacco, Giovanni Paolo II, a difesa di Solidarność. Per la stabilizzazione, che l’Europa deve promuovere nel suo interesse, non si potrà prescindere da un’appropriata dimensione di difesa e sicurezza, non solo militare ma economica ed energetica, e da una deterrenza efficace. L’analisi di Michele Valensise, ambasciatore e presidente del Centro italo-tedesco per il dialogo europeo Villa Vigoni

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