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Quando un governo cede il passo, le sue azioni sono consegnate alla storia e ai posteri cui spetta “l’ardua sentenza”. Scortesia istituzionale sarebbe quella di insistere ancora sui presunti limiti, le ritenute debolezze, gli errori istituzionali.

Ciononostante, non si può negare che l’esperienza appena passata sia stata l’espressione e la declinazione di una filosofia distruttiva ormai dilagante e imperante che va combattuta. Intendiamo riferirci al relativismo, in tutte le sue forme e, soprattutto, conseguenze.

Joseph Ratzinger vi ha dedicato pagine memorabili, nelle quali mette in guardia nei confronti di questo strumento di interpretazione della realtà materiale e spirituale, che conduce inevitabilmente al sonno della ragione.

Il relativismo nega l’esistenza di una qualunque verità tendenzialmente assoluta, nemmeno nella forma popperiana della temporanea non falsificabilità, e quindi mette criticamente in discussione la possibilità di giungere a una sua definizione ma soprattutto di attingere a una comparazione, e quindi a un giudizio assiologico.

Infatti, qualunque giudizio è necessariamente esercitato attraverso la comparazione con lo strumento unico di misurazione il quale, per ciò stesso, è caratterizzato dalla unicità e quindi assolutezza. Ma poiché il relativismo nega in radice la qualità di assolutezza a qualsiasi manifestazione del pensiero umano, conseguentemente esso nega anche la sola astratta possibilità di individuare un metro di giudizio unico. Così facendo, esso nega perfino il concetto stesso di giudizio il che significa, a ben vedere, la possibilità della scelta. Come in una composizione dodecafonica ogni nota è la tonica di se stessa, così per il relativismo ogni opinione è giustificazione di se stessa.

Relativismo scientifico, etico, teologico, filosofico, assiologico, conoscitivo, culturale, esperienziale, tutto impedisce di discernere, alla fine, il giusto dall’ingiusto, il corretto dallo sbagliato, riducendo il metro di giudizio sulle cose umane alle sole categorie contingenti dell’interesse e del particulare.

Il relativismo, come approccio globale alla realtà, permea per li rami ogni aspetto dell’agire e del vivere umani, come habitus mentale, e coinvolge anche gli strumenti che sovrintendono alla prassi. Conoscere per deliberare diviene un aforisma inutile, perché il conoscere senza giudizio non è conoscere, e il giudizio non è possibile quando si mettono esattamente sullo stesso piano qualsivoglia opinione. Il deliberare diviene così regola a se stesso, senza un parametro di giudizio che non sia la soddisfazione contingente e senza prospettiva. In politica esso è demagogia e populismo nelle sue manifestazioni deteriori.

Relativismo significa, per altro verso, egalitarismo delle conoscenze, delle idee, delle opinioni, delle competenze, degli uomini, dei cervelli. Si trasforma nella cultura superficiale del “tanto è uguale” diffusa soprattutto tra le generazioni vittime di una scuola lassista e rinunciataria: non si usa il congiuntivo, non si conosce un linguaggio preciso e specifico prediligendo termini come “cosa” e “fare”, tanto è uguale. Si confondono libici e libanesi, tanto è uguale, e cosa importa se il traforo del Brennero non esiste, tanto è uguale. Che giova se Pinochet era cileno e non venezuelano, tanto è uguale.

L’egalitarismo dei cervelli, come è evidente, incide anche sulla selezione della classe politica, ma ancora più preoccupantemente, su quella della classe dirigente. Il relativismo egalitario confonde e stravolge il concetto di uguaglianza, che è una categoria giuridica, intesa come sottoposizione di tutti al rule of law, e non una categoria morale, come lo è invece la pari dignità di ogni essere umano nella sua unicità pur con i suoi difetti. In nome di esso non si distinguono i saperi, la cultura, le competenze, le esperienze, tutto ciò in sostanza che connota e contraddistingue ciascun individuo. Così si nega la specificità della persona deprivata dei suoi difetti, inadeguatezze, inabilità, ma anche pregi, carisma, talenti, conoscenze, esperienze, affogati in un calderone dove “uno vale uno”, e dunque tutti valgono tutti, ma appunto perciò, ognuno vale nessuno. Una falsa eguaglianza che, celandosi dietro una affermazione apparentemente etica, in realtà nasconde una sostanziale delegittimazione della persona e delle sue peculiarità.

Abbiamo bisogno di un cambio di rotta, soprattutto dopo che abbiamo assistito ad esperimenti in corpore vili sul tessuto istituzionale, da parte di apprendisti stregoni non all’altezza dei complessi meccanismi della economia, delle istituzioni, del diritto. Approcci ora puramente teorici, ora utopici e fantasiosi, spesso velleitari o già falliti nella storia e nella economia, talvolta infantili che hanno creato confusione, contraddizione, debolezza dell’agire politico, danni forse irreparabili.

Tutto ciò riapre il problema della selezione dei quadri di supporto alla politica. Le recenti esperienze hanno dimostrato vieppiù, se mai ce ne fosse stato bisogno, che è illusorio pensare che i programmi di governo si realizzino sol che i politici siano eletti dal popolo e siano nominati i ministri. In realtà occorre una ben coesa e competente rete all’interno dell’apparato amministrativo e istituzionale. Il rapporto di agenzia tra la politica e la pubblica va gestito sia selezionando la classe dirigente di livello apicale sia creando una cinghia di trasmissione di alto livello tra questa e il governo, cioè la rete della diretta collaborazione (gabinetti, uffici legislativi, segreterie tecniche) che costituiscono lo staff pensante del politico.

Ciò si realizza attingendo a riserve professionalizzate, competenti, esperte, dotate di relazioni istituzionali vaste anche europee. Se il consenso, la visione, le sensibilità politiche, le sintesi, le utopie sono proprie dell’uomo politico, la elaborazione dei programmi attuativi e la loro concreta attuazione sono proprie, ai rispettivi livelli, degli apparati di staff e dei dirigenti apicali.

Emerge così irrinunciabile l’esigenza di attingere a quelle riserve dello Stato cui si accennava, che esistono in ogni Paese, come ad es. in Francia l’Ena e il Polytechnique. In Italia, la tradizione e le diverse condizioni della amministrazione hanno invece spinto verso l’estrazione da quelle classi di altissimi grand commis de l’état che sono i magistrati amministrativi e contabili, gli avvocati dello Stato, il personale della Banca d’Italia, i funzionari parlamentari, i diplomatici e, sul piano delle conoscenze specifiche della materia di riferimento, i professori universitari. Selezionate da procedure di ingresso durissime, da un cursus honorum estremamente selettivo, da una esperienza pregressa tale da forgiarne la professionalità concreta e operativa e non astratta e meramente dottrinaria.

Una classe dirigente che, naturaliter per la sua formazione, parla la medesima lingua istituzionale, ha forte il senso dello Stato e la consapevolezza della necessaria continuità di esso, condivide la lealtà nei confronti delle istituzioni, del premier e, soprattutto dei cittadini, la fedeltà ai principi, primi tra tutti quelli etici e costituzionali.

Il presidente Draghi proviene da due settori della riserva dello Stato: il mondo universitario e quello dei dirigenti apicali e comprende benissimo queste necessità. Sa che gran parte del suo successo sarà dovuto all’opera di questi grand commis de l’état e sa che solo creando con loro, anche personalmente, un forte spirito di squadra istituzionale e una solida complicità nel far bene si potranno contenere gli inevitabili tentativi di deviare nella prassi dagli obiettivi strategici e dagli indirizzi decisi dal presidente.

L’auspicio, che è in realtà una certezza, è che con Draghi non prevarrà il desiderio di imbarcare parenti, compagni di scuola, amici, vicini di casa, sodali in affari, nani e ballerine.

Draghi, il relativismo e le riserve dello Stato

Il presidente Draghi proviene da due settori della riserva dello Stato: il mondo universitario e quello dei dirigenti apicali. Sa che gran parte del suo successo sarà dovuto all’opera di questi grand commis de l’état e sa che solo creando con loro, anche personalmente, un forte spirito di squadra istituzionale e una solida complicità nel far bene si potranno contenere gli inevitabili tentativi di deviare nella prassi dagli obiettivi strategici e dagli indirizzi decisi dal presidente. L’analisi di Claudio Zucchelli, presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato

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