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Paesi “non amichevoli”, sanzioni personali, diplomatici espulsi: la politica estera di Mosca nell’ultima settimana si è declinata in questa direzione, guadagnandosi spazio sulla stampa europea, e raccogliendo reazioni di condanna nelle varie capitali della Ue.

In Russia il tema non è passato sotto silenzio, ma non ha avuto particolare risalto, ulteriore testimonianza di come ormai dal 2018 a essere centrali nel dibattito politico del Paese siano le questioni interne, e la politica estera oggi sia destinata ad essere una parte sicuramente importante della strategia complessiva del Cremlino, ma non considerata (in questo momento) prioritaria.

Le azioni promosse da Mosca sono frutto di un gioco di rimessa, anche abbastanza aggressivo, ma spesso frutto del tema del giorno più che di una visione globale dei processi in atto. L’introduzione del concetto di Paesi “non amichevoli” – forse volutamente si è evitata la formula “nemici” – è nel decreto presidenziale del 23 aprile, che delega al governo di stabilire la lista degli Stati a seconda delle occasioni.

Alle rappresentanze diplomatiche dei “non amichevoli” è proibita l’assunzione di personale russo, provvedimento già adottato all’inizio d’aprile per le ambasciate degli Usa e della Repubblica Ceca. La lista è in via di definizione, ma già a livello semiufficiale si ha notizia dell’inclusione in essa degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania, della Polonia, dell’Ucraina, e a questi stati dovrebbero aggiungersi Australia, Canada e Nuova Zelanda.

Le restrizioni nell’assunzione di personale tecnico avranno l’effetto di rallentare di molto i lavori delle rappresentanze diplomatiche, e già con il ridimensionamento del personale, da anni periodicamente in corso tra Washington e Mosca, vi sono problemi con il rilascio dei visti. Dal 12 maggio i consolati statunitensi in Russia non rilasceranno più visti turistici, di lavoro e di studio, a causa della riduzione del personale del 75%.

Dopo il decreto, lo scorso 30 aprile il Ministero degli Esteri russo ha annunciato il divieto d’entrata per otto cittadini dell’Unione Europea nel proprio territorio. La lista è eterogenea, perché vede personalità di spicco delle istituzioni europee, esperti implicati nel caso Navalny e vecchi conti in sospeso con gli stati baltici.

Infatti, nella blacklist assieme al presidente del parlamento di Strasburgo David Sassoli e a Vera Jourova, vicepresidente della Commissione con delega a valori e trasparenza, vi sono Jacques Maire, componente della delegazione francese all’Assemblea parlamentare del Concilio d’Europa, il procuratore capo di Berlino Jorg Raupach, e Asa Scott della Swedish Defence Research Agency. Proprio la Scott aveva dichiarato di aver ritrovato un agente della famiglia dei gas nervini nei tessuti di Navalny.

Passata in secondo piano nella stampa, l’inclusione di Māris Baltiņš, direttore del Centro della lingua statale della Lettonia e Ilmar Tomusk, a capo dell’Ispettorato linguistico estone, nella lista è molto importante e permette di comprendere meglio l’orizzonte su cui ha intenzione di muoversi il Ministero degli Esteri russo.

Le due istituzioni sono da tempo al centro di polemiche (e non solo da parte russa) a causa del loro atteggiamento non solo verso la propaganda ufficiale proveniente oltrefrontiera, ma anche nei confronti delle forti comunità russofone nei propri paesi, e le autorità di Mosca hanno aggiunto le due personalità con la logica dell’amalgama, ovvero inserire chi da tempo combatte una battaglia spesso discutibile al fianco dei rappresentanti delle istituzioni europee. In questo modo, è possibile associare in un unico campo di russofobi ogni critica al Cremlino, aggiungendo funzionari particolarmente ostili verso la lingua e la cultura dei russi.

In questo aprile di espulsioni reciproche, probabilmente abbiamo assistito a un riassetto, per ora di rimessa, della politica estera di Mosca. Bisognerà capire se i botta e risposta fatti di sanzioni e contro-sanzioni personali siano il preludio a uno scontro più ampio o si tratti di mosse intraprese per saggiare le posizioni degli avversari. Intanto è interessante sottolineare come però come l’unico Paese ad aver avuto una risposta non “simmetrica” nell’espulsione dei diplomatici sia stata l’Italia: nella partita apertasi dopo il caso Biot Roma ha mandato via due funzionari, mentre Mosca si è limitata a espellerne uno. Un’ammissione di colpa?

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