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Nell’anno che si è appena concluso l’opinione pubblica mondiale è stata giustamente e comprensibilmente distratta dal dramma della pandemia da Covid-19.

Per questo motivo molti eventi di grande portata geopolitica che in altri tempi avrebbero polarizzato l’attenzione dei media, degli analisti e del pubblico sono passati quasi inosservati, coperti come lo sono stati dal gran polverone mediatico su contagi e vaccini.

Tra questi eventi in qualche misura “sottostimati”, l’accordo politico-diplomatico di portata storica tra Israele, Emirati Arabi, Oman e Sudan è sicuramente il più significativo .

Grazie alla mediazione attiva di un Trump a fine mandato e del principe della corona saudita Mohamed Bin Salman, un muro di ostilità e di inimicizia ultra-settantennale tra Israele e una parte importante del mondo arabo-musulmano è stato parzialmente incrinato, gettando le premesse per una pace duratura nella regione più critica del Medio-Oriente o quantomeno per l’avvio di politiche di scacchiere più pragmatiche e pacifiche.

Il disgelo nelle relazioni tra una parte significativa del mondo arabo e quella che fino a soli pochi mesi fa veniva sprezzantemente definita “l’entità sionista”.

Il passo avanti verso la pacificazione in Medio-Oriente non è stato evidentemente ritenuto di particolare importanza a Washington dalla nuova amministrazione Biden.

Lungi dal confermare l’approccio in qualche modo pacifista e conciliante mostrato durante la campagna elettorale contro il “duro” Donald Trump, il neopresidente americano ha scelto fin da subito di mostrare al mondo di preferire lo scontro al confronto.

Dopo aver esordito sullo scenario mediorientale con un bombardamento improvviso in Iraq contro postazioni di miliziani asseritamente filo iraniani, Joe Biden ha rivolto le sue attenzioni contro la Cina, indicata come un nemico strategico contro il quale chiamare a raccolta tutte le forze dell’occidente democratico.

Insomma, il nuovo inquilino della Casa Bianca sembra ritenere che quando finalmente grazie alla vaccinazione di massa il mondo avrà superato la crisi sanitaria, invece che dedicarsi alla ricostruzione delle economie gravemente colpite dagli effetti del virus, le potenze mondiali dovrebbero ripercorrere i vecchi passi dei tempi della guerra fredda per il conseguimento di una “superiorità strategica” che riaffermi il ruolo degli Stati Uniti come prima potenza mondiale.

Per dare concretezza a questo progetto e mandare a Pechino un chiaro segnale di inimicizia e di ostilità, Biden ha ordinato al Pentagono di procedere nella pianificazione del progetto trumpiano di installare una rete missilistica dal costo di 27,4 miliardi di dollari da stendere, secondo l’agenzia Nikkei Asia, nei Paesi che rappresentano una cintura strategica intorno alla Cina, Taiwan, Giappone, Okinawa, Filippine, una rete di missili a corto e medio raggio ritenuta idonea a far sentire alla Cina il peso militare della presenza americana in Estremo Oriente.

Il messaggio di Biden, chiaramente volto a intimidire Pechino anche militarmente, è stato raccolto con disarmante superficialità dal segretario generale della Nato, il norvegese Jens Stoltenberg, che dimenticando le finalità istituzionali dell’Alleanza Atlantica, ha dichiarato di fronte al Council of Foreign Relations di New York che “la Nato dovrà occuparsi della Cina, adattando il suo approccio strategico in un rapporto più stretto con Giappone, Australia e India”.

Spiace che anche nel nostro Paese autorevoli commentatori di importanti testate si siano dedicati ad additare ai lettori, con toni che richiamano alla memoria quelli utilizzati contro il Patto di Varsavia negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso, il “pericolo cinese”, con un allineamento acritico alle posizioni americane che, peraltro, non trovano riscontro né nella politica cinese né nelle relazioni tra l’Unione Europea e il governo cinese.

La Cina, infatti, appare decisamente orientata più che ad aprire una nuova dissennata corsa agli armamenti, ad avviare misure concrete per risollevare la propria economia e rendere più “moderatamente ricca” la propria popolazione.

Il 26 ottobre dello scorso anno, esaurita la prima ondata epidemica da Covid-19, si è aperta a Pechino la quinta sessione plenaria del 19° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, con l’ambizioso obiettivo di definire, dopo mesi di preparazione e in quattro giorni di dibattito a porte chiuse, le linee strategiche del 14° piano quinquennale del Paese, uscito – a differenza del resto del mondo – praticamente indenne dalla pandemia di Covid-19.
Il piano, destinato a coprire il quinquennio 2021-2025 ha il titolo, denso di significati, “Visione 2035”, un titolo volto a sottolineare il suo potenziale impatto a medio termine sull’economia della Cina e sulle sue relazioni internazionali. L’agenzia economica americana Bloomberg ha definito il piano un “Warning Shot”, un “colpo di avvertimento quinquennale agli Stati Uniti”.

Un “ warning shot” che mira evidentemente a sfidare gli Stati Uniti non certo a una nuova gara militare a chi minaccia di più, ma piuttosto a mettere in campo, anche con nuovi modelli di cooperazione internazionale, risorse fresche e creative per risollevare l’economia mondiale, cercando anche di attivare politiche di risanamento dell’ambiente.

È sulla base di questi obiettivi che il Presidente Xi Jinping ha dettato le linee guida del nuovo piano quinquennale il cui fulcro centrale è quello della “dual circulation”, una strategia che mira a far crescere contemporaneamente la domanda interna e gli investimenti stranieri in beni di consumo e tecnologia, con un approccio “duale” e coordinato di grande impatto potenziale sulle condizioni di vita della popolazione cinese e sulle relazioni internazionali di Pechino.

L’Europa, evidentemente, non sembra ancora intenzionata a seguire acriticamente le idee bellicose di Washington sulla Cina.

È del 30 dicembre 2020 la notizia dell’accordo tra Cina e Unione Europea in tema di investimenti. Dopo sette anni di negoziati, nel corso di una conference call tra il presidente cinese Xi Jinping e Ursula Von Der Leyen, presidente della Commissione Europea, affiancata dal presidente francese Emmanuel Macron, dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel, è stato approvato il “Comprehensive Agreement on Investments” (Cai). Si tratta di un accordo storico che apre una nuova “Via della Seta” tra il Vecchio continente e l’immenso mercato cinese.

I principi di base del “Cai” mirano a un sostanziale riequilibrio commerciale tar Europa e Cina, essendosi quest’ultima finora dimostrata poco aperta nei confronti degli europei. Con questo accordo, Pechino si apre all’Europa in molti settori significativi, con particolare riguardo al settore manifatturiero e a quello dei servizi.
In questi campi la Cina si impegna a rimuovere le norme che fino a oggi hanno fortemente discriminato le imprese europee, garantendo certezze legali per chi intende produrre in Cina, allineando sul piano normativo le aziende europee e quelle cinesi e favorendo la costituzione di joint venture e la stipula di accordi commerciali e produttivi.
Per quanto attiene ai servizi, la Cina favorirà gli investimenti europei in tema di servizi “cloud”, servizi finanziari, sanità privata, servizi collegati al trasporto aereo e marittimo.

È la prima volta nella sua storia che la Cina si apre in tal modo alle aziende e agli investimenti stranieri.
Cina ed Europa sembrano aver capito che nel mondo post-pandemia non ci dovranno essere spazi per “olimpiadi geopolitiche” che stabiliscano chi vince la medaglia di “prima superpotenza”, ma piuttosto ci sarà necessità di un nuovo e creativo multilateralismo economico che veda l’Est e l’Ovest del mondo lavorare insieme per gettare le basi concrete per la rinascita del pianeta.

Speriamo tutti che gli Stati Uniti siano della partita, magari prendendo esempio dal realismo di Israele e di quegli Stati arabi che sembrano aver capito che dai conflitti si esce tutti più poveri.

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