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Il problema non era ai due terminali telefonici, ma dietro le spalle di chi era al telefono. Non ho dubbi sul fatto che Ursula von der Leyen e Mario Draghi si siano intesi, resta aperta l’intesa o la non intesa con quanto ciascuno di loro rappresenta.

La parte più consistente dei fondi messi a disposizione e raccolti dall’Ue sono destinati all’Italia. È più che ragionevole l’interesse della Commissione a come vengono spesi, in che tempi, con che obiettivi e con che speranze di riuscita. Non è un’ingerenza, semmai una garanzia. La fiducia che corre fra la presidente della Commissione e il presidente del Consiglio può essere massima e credo lo sia, ma questa non è una faccenda personale, è il rapporto fra un Paese membro e le istituzioni dell’Unione, ove a von der Leyen spetta la rappresentanza e difesa degli interessi collettivi. Quindi, dato il testo del Pnrr, certi passaggi vanno letti alla luce di quel che succede e potrà succedere all’interno dei nostri confini.

Una cosa è solare: votando quel testo l’Italia, e con quella le forze politiche, i capi politici e i singoli parlamentari (ammesso contino qualche cosa) che lo votano prendono un impegno che dura almeno fino al 2026. Almeno. Fissano un vincolo, al tempo stesso interno ed esterno, che non potrà essere modificato o violato. Vogliamo dirlo in maniera più ruvida: neanche le elezioni del 2023 potranno cambiarlo. Meglio saperlo per tempo e che ciascuno si assuma le proprie responsabilità.

Posto ciò, ci sono due modi di vedere le cose. Per il primo Draghi è forte ora, in fase di presentazione e approvazione, quanto non lo sarà più, in fase di applicazione, quindi sarebbe meglio chiarire subito non solo come s’intende spendere, ma anche come s’intende riformare. Nel dettaglio. Un esempio: sentire dire al ministro della giustizia (intervista a La Stampa) che non ha idea di come affrontare il nodo della prescrizione, attendendo lumi da una commissione, non è confortante. Non mi sfugge il politichese, ma non è confortante. E capisco che lo sconforto può rendere forti le critiche al via libera dato da von der Leyen. Un secondo modo di vedere dice: è assurdo pensare si faccia tutto e subito e siccome ci vuole tempo è ragionevole che alcuni nodi si taglino in fretta e altri si rimandino, per evitare rotture ora pericolose. Anche questo è ragionevole.

Ma se si capisce cosa si agita alle spalle della presidente della Commissione si capisce anche quel che accade nel cortile della politica nostrana. E non è un bel vedere. Il fatto che mentre si parla di un piano che, se applicato fino in fondo, cambierebbe il volto dell’Italia ciascuno corra a intestarsi una conferma di spesa per agevolazioni che non hanno funzionato o il rinvio di regali pensionistici non sostenibili mette in evidenza un punto decisivo: non hanno capito. O non sono capaci di capire, perché ubriachi di propaganda e digiuni di competenze, o si fingono digiuni di razionalità per potere continuare la sbornia. In entrambe i casi non porta bene.

Quindi esiste un punto che andrebbe messo in immediata e ineludibile evidenza: quel piano costituisce un vincolo immodificabile, in sincrono con il Documento di economia e finanza, che segna anche i tempi del rientro da deficit. È lecito votare contro. Non è lecito far finta di non saperlo.

Pnrr, Draghi punta al 2026. E i partiti? La versione di Giacalone

La telefonata tra Draghi e von der Leyen è più che ragionevole, date le istituzioni che i due rappresentano. Sul fronte interno, però, pare non essere chiaro che il Pnrr costituisce un vincolo immodificabile, in sincrono con il Def, che segna anche i tempi del rientro da deficit. È lecito votare contro. Non è lecito far finta di non saperlo. L’analisi di Davide Giacalone

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