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Chissà se Giuseppe Conte ha mai visto o si ricorda del Massimo Catalano di Quelli della Notte. Nel caso, potrebbe tornargli utile rifarsi alla sua saggezza luogocomunista. Del tipo: per fare una scuola partito prima di tutto serve un partito. Già. L’ impresa dell’ex presidente del Consiglio merita rispetto e non motteggi non solo per la sua difficoltà tale che spaurisce l’anima, ma anche e soprattutto perché riguarda un partito che seppur dimezzato di consensi resta un pilastro della governabilità attuale e sarà decisivo nell’elezione del successore di Mattarella, cioè la madre di tutte le scelte della legislatura.

È uno sforzo che per non rivelarsi di Sisifo deve poggiarsi sulla rivisitazione di alcuni teoremi del MoVimento. E anche sulla rivisitazione dell’immagine stessa che Conte ha di se e di come viene ora vissuta dai Cinquestelle. Abbiamo già illustrato qui su Formiche.net come la metamorfosi da capo del governo a capo di un partito sia tutt’altro che facile. Per chi non ha alle spalle una dimensione politica strutturata, può diventare operazione molto più che complicata. Una cosa infatti è disporre della più importante postazione di potere dello Stato e dell’involucro di leadership che comporta. Un’altra è guidare una struttura magmatica e bizzosa come è un partito: lì una navigazione magari tempestosa ma impugnando ben saldo il timone del comando; qui un rodeo.

E appunto l’immagine è decisiva ai fini dell’autorevolezza. Se fai il premier, gli altri devono, convinti o no, seguirti. Oppure disarcionarti pagandone il prezzo. Se fai il leader di una forza politica, l’aura di egemonia si frantuma. A ben vedere, la decisione di Conte di farsi dare del tu risponde a questa esigenza. Alla necessità cioè di essere riconosciuto nel nuovo ruolo e diventare interlocutore di tutti. Diciamo una rivisitazione con quel tanto di necessaria strumentalità dell’architrave ideologica del grillismo per cui uno vale uno.

Ma c’è un rovescio della medaglia che Conte medesimo squaderna e ci riporta al Catalano di cui sopra. Ed è laddove l’ex avvocato del popolo reclama – sotto forma di domanda ai militanti – la necessità di una specie di scuola di partito. Anzi, per usare le sue parole: “Condividi l’idea di creare un Centro di formazione ben strutturato, che favorisca l’elaborazione di idee e progetti e l’approfondimento delle varie tematiche riguardanti la vita politica, economica, sociale e culturale“? Quesito che scaturisce dal fatto che “è particolarmente avvertita l’esigenza di offrire strumenti di formazione e che favoriscano la crescita culturale e politica di tutti i vari soggetti impegnati con il Neo-movimento”.

In pratica si tratta della più plateale sconfessione del precetto dell’uno vale uno. È il riconoscimento conclamato che cultura, la capacità, la competenza servono eccome. Perché diventare classe dirigente è un esercizio che richiede impegno, studio, approfondimento. Perché quelli che si sono avvicendati negli incarichi di Stato dopo la travolgente vittoria elettorale del 2018 non possedevano – o almeno non tutti e non in eguale misura – il necessario e indispensabile retroterra di conoscenza, esperienza e preparazione. Ecco perché bisogna andare a scuola (di partito).

Tuttavia non è così semplice. Primo perché, appunto, serve un partito: il M5S non lo è ed ha sempre con sprezzo rifiutato una tale dimensione: dunque cambiare pelle è complicato e magari anche doloroso. Poi perché per andare a scuola non bastano gli alunni: servono anche gli insegnanti. Nel caso del Neo-movimento chi sarebbero? Al di là della suggestione che il riferimento alla Frattocchie evoca (il Pci la chiuse nel 1993: cinque o sei ere geologico-politiche fa), il punto è a quali valori, a quali ideali la scuola di Conte vuol fare riferimento. Il M5S ha perso – per molti fortunatamente – la carica palingenetica che aveva all’inizio e che Beppe Grillo aveva impostato con il Vaffa: un anatema da scagliare contro tutto e contro tutti. Ma con cosa sostituirlo nessuno lo sa, né l’ex premier lo chiarisce. Il Pci aveva le Frattocchie perché intendeva preparare i suoi dirigenti all’inserimento di “elementi di socialismo” nella democrazia italiana. Sempre all’ombra della dottrina comunista, ovviamente. Il M5S cosa vuole insegnare? Se si è estremisti, seppur di centro, diventare liberali (opzione Luigi Di Maio) è impervio. Si potrebbe cominciare dagli elementi di base della democrazia rappresentativa, dal Parlamento che non è una scatoletta di tonno, dallo statalismo che non è il libero mercato benché “corretto” nei suoi animal spirits.

Vero è che si nasce incendiari e si muove pompieri. Ma è un epitaffio, non una linea politica. E nessuna scuola lo insegna.

Conte e il partito che non c’è. Il mosaico di Fusi

L’ex avvocato del popolo reclama la necessità di una specie di scuola di partito. Tuttavia non è così semplice. Primo perché, appunto, serve un partito: il M5S non lo è ed ha sempre con sprezzo rifiutato una tale dimensione. Poi perché per andare a scuola non bastano gli alunni: servono anche gli insegnanti. Il Mosaico di Carlo Fusi

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