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C’è chi evoca la storia, chi lo spirito del popolo, chi le abitudini o la cultura, c’è anche chi rilegge Tacito e il suo rispettoso ritratto dei germani, barbari sì, ma con quei valori forti che a suo parere i romani avevano perduto. Tutti esercizi scolastici, utili persino, ma per capire perché i tedeschi hanno affrontato meglio degli altri la pandemia bisogna guardare piuttosto alla leadership e alla guida esercitata da Angela Merkel.

È la terza grande prova superata nel suo lungo cancellierato dopo la crisi dell’euro nel 2011-2012 e lo shock dei rifugiati provenienti dalla Siria nel 2015, ma senza dubbio questa è la sfida più terribile. Nell’ora più buia molti avrebbero voluto assumere le sembianze di Winston Churchill. Lo volle Boris Johnson il quale all’eroe della Seconda guerra mondiale aveva dedicato una biografia che voleva essere un’autobiografia. Invece, s’è visto com’è finito. Ha tentato anche Giuseppe Conte. Ma ogni tardo imitatore del solenne giuramento del leader inglese (“lacrime, sudore e sangue”) ha dovuto poi ammettere che l’unico altro Churchill nel bel mezzo di questa tragedia paragonabile a un’altra guerra mondiale è una donna e non risiede a Londra bensì a Berlino.

Fra un anno dovrebbe ritirarsi dalla politica, questo l’impegno preso nel 2018 dopo la sconfitta in Assia. Pochi a questo punto ci credono. Quando la Germania è entrata in un semi-lockdown, la kanzlerin non ha taciuto la verità: “Abbiamo quattro lunghi mesi invernali davanti a noi. La luce alla fine del tunnel è abbastanza lontana. Se ci comporteremo secondo ragione, allora potremo permetterci più libertà. Non credo che ci potranno essere grandi e rumorose feste di Capodanno. Sarà invece un Natale condizionato dal Coronavirus, ma non dovrà essere un Natale in solitudine”.

La cancelliera può contare su una gestione del Covid-19 senza dubbio più virtuosa di molti Paesi. Grazie alla capienza degli ospedali, doppia della media europea, e alla disciplina che in realtà andrebbe tradotta come spirito di collaborazione.

In una repubblica federale dove i Länder hanno poteri ben più forti delle regioni italiane, non sono mancate le divisioni tra autorità locali e centrali. Ma non si è aperta nessuna crisi istituzionale, le divergenze sono state ricomposte secondo quella cultura cooperativa che è una delle componenti più importanti della nuova Germania. Mitbestimmung, compartecipazione, nelle aziende come in politica.
Il conflitto non viene represso né evitato, ma gli opposti vengono condotti verso una sintesi trovando compromessi di volta in volta aggiustabili.

Avevano sottovalutato, nel suo partito, la Cdu, e in patria, la giovane scienziata ossie (orientale, un epiteto peggiore di terrone) che non si era mai occupata di politica prima che cadesse il muro di Berlino. Ha mostrato la propria tempra quando ha gestito lo scandalo che nel 1999 travolse il suo mentore Helmut Kohl. Si parlò di parricidio, ma fu una rottamazione. Nel 2005 ha preso un potere che, nonostante i rovesci, non ha più lasciato. Ha commesso molti errori come nella crisi greca, tuttavia senza il suo appoggio Mario Draghi non avrebbe salvato la moneta unica in quel fatidico 2012. Quando tre anni dopo accolse un milione di immigrati tutti le cantarono il De profundis. Invece ha saputo sfidare i sentimenti peggiori del popolo e ha vinto.

Quest’anno ha realizzato due mosse magistrali: la nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione Ue e la svolta che ha consentito il varo del Next generation Fund. Mentre si conclude il suo ciclo in patria, così, si apre un nuovo ciclo in Europa. E l’elezione di Joe Biden potrà darle una mano.

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