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Ancora scintille tra la Cina e diversi Paesi occidentali questa settimana. A partire dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, dove Regno Unito e Francia hanno espresso dure critiche nei confronti di Pechino per i crimini contro l’umanità nello Xinjiang.

Lunedì Dominic Raab, ministro degli Esteri britannico, ha denunciato le torture, il lavoro forzato e la campagna governativa di sterilizzazione di massa che avvengono “su scala industriale”. Il suo reiterato appello per un’indagine internazionale indipendente sotto l’egida dell’Alto commissariato per i diritti umani ha trovato eco nelle dichiarazioni di diversi Stati membri e fa seguito a quello lanciato da 39 Paesi rappresentati dalla Germania a inizio ottobre: allora l’ambasciatore tedesco presso le Nazioni Unite aveva esortato la Cina a permettere agli osservatori Onu “un accesso immediato, significativo e senza restrizioni” allo Xinjiang.

Non una missione d’indagine stile Oms per intenderci. Un gioco al quale, a differenza del segretario generale dell’agenzia Onu per la sanità, l’Alto commissario Michelle Bachelet non vuole prestare il fianco nonostante gli inviti reiterati da parte cinese su una possibile missione teleguidata dal Partito comunista cinese.

Già all’inizio di questo mese, il 4 febbraio, aveva rilanciato la richiesta anche l’Australia., già sotto enorme pressione delle sanzioni economiche unilaterali da parte di Pechino per aver denunciato più volte gli abusi dei diritti umani nella Repubblica popolare e per aver avanzato la richiesta originale per un’indagine internazionale sulle origini del Covid-19 nella primavera dell’anno scorso.

Rispondendo al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha esortato gli Stati membri a smettere di “calunniare” il Partito comunista cinese e il suo sistema politico monopartitico, e di fermare il sostegno alle forze separatiste in Taiwan, Tibet, Hong Kong e Xinjiang. “Le accuse infiammatorie sullo Xinjiang sono fabbricate per ignoranza e pregiudizio, sono semplicemente propaganda politica maliziosa e guidata politicamente e non potrebbero essere più lontane dalla verità”.

Peccato per Pechino che queste “accuse infiammatorie” trovino conferma proprio nei suoi propri dati ufficiali, rilasciati nel rapporto annuale compilato dal National Bureau of Statistics of China, che forniscono prova inconfutabile sulle accuse circa la campagna di sterilizzazione di massa e di aborti forzati – una pratica di soppressione delle nascite che rientra nella Convenzione Onu sul genocidio. Le statistiche sulla popolazione pubblicate dal governo cinese mostrano un forte calo dei tassi di natalità nello Xinjiang, diminuiti di circa due terzi nel giro di due anni, secondo i dati che si protraggono fino al 2019. Tra il 2017 e il 2019 infatti, il tasso di natalità nello Xinjiang si è quasi dimezzato, passando dal 15,88% nel 2017 all’8,14% nel 2019.

E la pressione di un Occidente che ha preso pienamente – e aggiungiamo: finalmente – coscienza di quanto sta avvenendo “su scala industriale” nella regione dello Xinjiang aumenta. Dopo il riconoscimento formale di un “genocidio in corso” da parte delle due amministrazioni statunitensi di Donald Trump e Joe Biden, all’inizio di questa settimana, mentre la Camera dei Lord britannica approvava per la terza volta “l’emendamento genocidio” alla nuova legge di commercio, il Parlamento canadese ha, all’unanimità, giudicato che i crimini commessi dal Partito comunista in Cina costituisce un “genocidio” ai sensi della Convenzione Onu del 1948.

Mosse che hanno provocato ancora una volta l’ira da parte cinese. In un articolo sul Global Times, giornale di propaganda in lingua inglese del regime cinese, i Paesi alleati nella comunità d’intelligence Five Eyes – Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda – sono stati accusati di essere “un asse della supremazia bianca che mira a mira a soffocare i diritti di sviluppo di 1,4 miliardi di cinesi”. Secondo il tabloid, “hanno formato una comunità centrata sugli Stati Uniti, razzista e di stile mafioso, provocando volontariamente e arrogantemente la Cina e cercando di consolidare la loro egemonia come fanno tutti i gangster”.

Ma non basterà più prendersela con i Five Eyes o gli Stati Uniti. Dopo iniziative di una “mozione genocidio” già lanciate nei Parlamenti del Belgio, Lithuania e Repubblica ceca, ieri il Parlamento olandese è stato il primo Parlamento europeo ad adottare una mozione che riconosce un “genocidio in corso” nello Xinjiang. Come per la versione canadese, non è uno strumento che possa obbligare il governo olandese a darne effettivo seguito, ma è un chiaro segnale che c’è una forza morale europea che non è più pronta a chiudere gli occhi su quanto sta avvenendo.

Come già alla notizia della proposta di risoluzione al Parlamento federale belga – rimproverata ufficialmente per “atti ingloriosi e spregevoli, a cui non deve essere lasciato spazio” –, la Cina non ha tardato di rispondere anche al Parlamento olandese. L’ambasciata cinese all’Aia ha dichiarato giovedì che qualsiasi suggerimento di un genocidio nello Xinjiang è una “vera bugia” e che il Parlamento olandese aveva “deliberatamente imbrattato la Cina e interferito grossolanamente negli affari interni della Cina”.

Un rimprovero che potrebbe molto presto arrivare anche in altri Paesi europei, ivi incluso l’Italia dove insieme al deputato Paolo Formentini, vicepresidente della commissione Esteri della Camera e membro dell’Alleanza Inter-Parlamentare sulla Cina, stiamo elaborando da tempo una proposta parlamentare di riconoscimento simile che verrà depositata al più presto. “Di fronte al genocidio degli uiguri nella Xinjiang, alla cancellazione di una cultura, all’assimilazione forzato di un popolo, il nostro Parlamento non può restare indifferente e in silenzio”, dichiara Formentini. “Mentre tutti credono che ‘l’arcipelago Gulag’ sia esistito solo nell’Urss continua ancora, invece, a schiacciare la libertà nei Laogai, nei campi di concentramento in quella Cina da molti purtroppo portata ad esempio anche in Italia”.

È del tutto evidente che tali segnali, sebbene guardati con mal occhio non solo dal Partito comunista cinese ma anche da buona parte dei governi occidentali stessi che certamente non gradiscono la pressione parlamentare sulla questione, arrivano in un momento molto delicato per la Cina e l’Unione europea stessa. Con il contenzioso parlamentare sull’Accordo complessivo sugli investimenti aperto, la crescente pressione per riconoscere le più gravi violazioni degli accordi internazionali da parte della Cina non giova certo alla causa promossa dalla Commissione europea e i partner francotedeschi.

Infatti, nella loro conversazione bilaterale questa settimana, non a caso il leader cinese Xi Jinping avrebbe chiesto proprio al presidente francese Emmanuel Macron di velocizzare il processo di approvazione dell’Accordo, mentre quest’ultimo avrebbe saggiamente taciuto sulla questione uigura. Ma per quanto il Parlamento francese glielo permetterà ancora?

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