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Probabilmente, se fosse stato ancora tra noi, il presidente Francesco Cossiga avrebbe commentato da par suo la notizia circa le possibili infiltrazioni cinesi in Italia e più in generale nell’Occidente. E rievocando alcune sue uscite sui temi dell’intelligence, potremmo chiosare che ci mancherebbe pure che simili fenomeni non si verificassero. Una domanda ingenua, a tale proposito, potrebbe essere quella sul perché si verificano situazioni simili.

E a questa domanda occorre dare una risposta chiara. Articolata su due livelli.

Il primo: piaccia o meno, l’Italia è tornata a essere un limes. Non più tra Nato e Patto di Varsavia, fortunatamente. Ma certamente tra modello occidentale e modello cinese. La pianificata azione di penetrazione cinese in Europa, mediante una coordinata e lucida regia del Partito comunista cinese, corre lungo le direttrici della Via della Seta, e dopo aver reso subalterna l’Africa con una logica di neo-colonizzazione economica imperniata sul land grabbing, ora attraversa il Mediterraneo puntando a gangli molto precisi. Secondo una coordinata che assomiglia molto alla strategia militare, le casematte di questa penetrazione oggi si ritrovano nei porti del Mediterraneo, nella logistica, nell’energia, nelle telecomunicazioni. E l’Italia è sul crinale di questa contrapposizione.

Nella fase del “capitalismo politico” che oggi domina il mondo — soppiantando il dominio espresso dall’icona della globalizzazione — la Cina utilizza in termini di obiettivi politici e strategici l’economia, il commercio e la finanza. Il capitalismo per Pechino è uno strumento per perseguire l’obiettivo di diventare la potenza egemone del XXI secolo, soppiantando gli Stati Uniti nel ruolo di leader globale. Per la Cina, economia e politica sono compenetrati in un “tutt’uno organico” che in quel sistema autoritario coincide con la presenza del partito-Stato che impiega l’uso degli strumenti capitalistici per obiettivi, scopi e vantaggi politici.

Come noto, gli Stati Uniti d’America hanno reagito di fronte a questo obiettivo, manifestando pubblicamente la nuova “dottrina americana” sulla Cina con il discorso reso dal vicepresidente Mike Pence il 4 ottobre 2018 all’Hudson Institute, che nei tratti e nella logica si affianca molto all’equivalente discorso i Winston Churchill a Fulton sulla “cortina di ferro”. Il discorso non nasce dal caso, ma arriva da una serie di analisi e riflessioni anticipate alcuni mesi prima nel documento sulla National Security Strategy. La Cina è stata definita “potenza revisionista”, ossia una potenza che vuole “rivedere”, per piegarlo a proprio favore, lo status quo. Obiettivo della Cina, secondo gli Stati Uniti, è riscrivere le regole del gioco del balance of power globale, modificando gli equilibri, gli assetti e i rapporti di forze. Le accuse di Pence sono state circostanziate e puntuali. La Cina, nell’analisi del numero due dell’amministrazione Trump, ha violato da molti anni in maniera sistematica lo spirito e la norma delle regole sul commercio stabilite dalla World Trade Organization (Wto); ha dapprima imposto dazi molto maggiori rispetto a quelli applicati da Trump; ha costretto le aziende occidentali a trasferire le proprie conoscenze tecnologiche; ha rubato proprietà intellettuali; ha usato senza remore sussidi pubblici; ha svalutato la propria moneta per rendere più competitivo il “made in China”; ha sfruttato la propria intelligence per spionaggi di tipo industriale e militare in tutto l’Occidente. Oltre a questi rilievi, piuttosto pesanti, vi è un secondo piano del discorso all’Hudson Institute che fa assumere un calibro decisamente vicino alla requisitoria. La Cina, secondo Pence, ha tradito in maniera sistematica le promesse fatte al momento dell’ingresso nel Wto all’inizio degli anni Duemila. Nessuna apertura delle frontiere; forte controllo del Partito comunista su una economia interna ibrida condizionata dal capitalismo di Stato; riforme politiche inesistenti, anzi regressione sul piano autoritario sotto la presidenza di Xi Jinping. Non poteva mancare anche una terza parte di analisi, quella relativa alla politica estera e militare. Pechino, in questa lettura, ha proseguito nella escalation degli armamenti, ha lanciato una militarizzazione delle acque limitrofe, moltiplica atti di prepotenza nel Mar della Cina orientale e meridionale per annettersi isole conteste da Giappone, Filippine, Vietnam. Chi, secondo una lettura provinciale, pensa che la nuova presidenza Biden modificherà questo corso statunitense verso la Cina è destinato a doversi ricredere molto rapidamente.

E qui veniamo al secondo livello, della nostra spiegazione. Nel confronto democrazia-autocrazia attualmente in corso sul piano globale, l’Italia è un territorio al tempo stesso di nuova frontiera della “nuova guerra fredda” del terzo millennio e luogo di intersezione tra le tre maggiori potenze globali, di cui due (Cina e Stati Uniti) effettivamente dispiegate, e una terza — l’Unione europea — ancora in fase embrionale in termini di potenza. Le scelte che si dovranno fare in alcuni campi decisivi per il futuro (telecomunicazioni, anzitutto, che oggi sono decisive come il carbone e il ferro lo erano all’inizio del XX secolo) determineranno gli assetti, i ruoli, le forze in campo.

Appare evidente che lo spionaggio — o se si preferisce, l’intelligence — sia un corollario di questa fase. Illudersi che non esista significa essere Alice nel paese delle meraviglie. Tanto vale ragionare su come stare in questa fase, assumendo le necessarie contromisure sulla base di una precisa scelta di campo.

E in questo, non può non inquietare vedere un’ex presidente del Consiglio — ancorché oggi espressione di una forza minoritaria della coalizione di maggioranza — e pezzetti del governo italiano (che si regge anche con il voto del gruppo parlamentare di cui faccio parte) assumere le posizioni che hanno assunto recentemente in materia di 5G, Cina e rapporti con gli Stati Uniti.

Ma questa è un’altra storia, che dovrà essere ripresa in un’altra sede.

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