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Venerdì il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato la chiusura di cinque programmi di scambio culturale “interamente finanziati e gestiti” dal governo cinese, che li utilizza come “strumenti di propaganda di soft power”. Due giorni prima era entrata in vigore una nuova stretta statunitense sui visti ai membri del Partito comunista cinese. Washington è decisa a contrastare gli sforzi di Pechino di influenzare il dibattito americano: un giro di vite avviato dall’amministrazione di Donald Trump che rappresenta, alla luce della preoccupazione ormai bipartisan al Congresso per la minaccia cinese, una sfida per il presidente-eletto Joe Biden.

I primi a finire sotto la scure statunitense erano stati, ad agosto, gli Istituti Confucio, identificati come strumenti, più che di soft power, di sharp power. Cioè di quel potere di “trafiggere, perforare, penetrare” i contesti accademici, la pubblica opinione e i media dei Paesi ospiti. Per questo gli Istituti Confucio sono stati obbligati a registrarsi come missioni straniere negli Stati Uniti.

Il dibattito sul tema in Italia — Paese che ospita 12 Istituti Confucio (in totale nel mondo oggi se ne contano 541) oltre che tre Classi Confucio — è intermittente. Si è riacceso in questi giorni dopo l’intervista all’Adnkronos di Federico Masini, direttore italiano del più longevo Istituto Confucio d’Europa, quello dell’Università Sapienza di Roma. Masini ha rivendicato “libertà accademica” ma ha anche spiegato che quest’anno il suo Istituto Confucio riceverà i fondi non più dallo Hanban (l’Ufficio nazionale per l’insegnamento del cinese come lingua straniera affiliato al ministero dell’Istruzione di Pechino) bensì da un “nuovo soggetto giuridico” dopo il “trasloco” imposto da Pechino con il passaggio alla Chinese International Education Foundation, un’organizzazione non governativa. Una scelta, quella del governo cinese, che Masini spiega essere stata dettata dalla necessità di “risolvere i problemi che hanno avuto in molti Paesi del mondo”.

Formiche.net ne ha parlato con Elisa Giunipero, direttrice italiana dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Professoressa, è sbagliato pensare che negli Istituti Confucio si faccia propaganda cinese?

Posso dire per il mio istituto che non fa propaganda politica cinese. Gli insegnanti cinesi sono pagati dalla parte cinese, che nel nostro caso è la Beijing Language and Culture University. Lo staff italiano, invece, dipende dalla Cattolica. Io non percepisco, e ci tengo a chiarirlo, retribuzione dalla parte cinese. Inoltre, vorrei sottolineare che gli insegnanti inviati per i corsi dell’Istituto Confucio non insegnano nei corsi curricolari della facoltà di Lingue della Cattolica.

Il professor Masini ha dichiarato che a lui “non è mai capitato” che gli fosse detto “di non fare questo o non fare quell’altro”. Può dire lo stesso?

Assolutamente sì. L’Istituto Confucio della Cattolica, attivo da 10 anni, come tutti gli altri ha una duplice attività: da una parte la promozione della lingua, dall’altra le attività culturali. Nel caso di queste ultime è l’Istituto, in base anche alle competenze, a scegliere come indirizzarle, come svolgerle.

Dunque fare o meno attività su temi sensibili la Cina — pensiamo a Hong Kong e allo Xinjiang — è una scelta che ricade sulla parte italiana dell’Istituto?

La parte italiana può proporre quello che vuole e discuterlo con i colleghi cinesi. Noi non abbiamo mai fatto un convegno su Hong Kong semplicemente perché si tratta di un istituto universitario che riflette le competenze dei suoi membri che nel nostro caso non sono di storia politica. Però la viceministra degli Esteri Marina Sereni ha parlato della situazione di Hong Kong qualche giorno fa, ospite del nostro Istituto Confucio e alla presenza anche dell’ambasciatore cinese Li Junhua. E ovviamente ha fatto benissimo a farlo. Nel mio caso, mi occupo in particolare di storia religiosa della Cina moderna e contemporanea, che certamente costituisce oggi in Cina un tema sensibile. L’anno scorso, per il decimo anniversario dell’Istituto Confucio, abbiamo avuto ospite il segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, assieme al vescovo di Pechino, Giuseppe Li Shan. E vorrei aggiungere che anche nel caso del mio ultimo volume dedicato a Xu Guangqi — un discepolo di Matteo Ricci —, finanziata dall’Istituto Confucio, non ho ricevuto alcuna istruzione o indicazione.

Proprio la libertà religiosa è stata tra i temi di scontro tra la Santa Sede e gli Stati Uniti, in particolare in occasione della visita a Roma del segretario di Stato Pompeo. Come affronta un Istituto Confucio questo tema spinoso?

Noi facciamo il nostro lavoro di docenti universitari. Non siamo né la Santa Sede né un governo. Dal punto di vista degli studi possiamo sicuramente affrontare certe questioni.

C’è però anche un aspetto di divulgazione.

Sì, certo. Per esempio, tra i miei temi di studio c’è la politica religiosa e dunque insegno questo ai miei studenti.

Gli Istituti Confucio rappresentano un’eccezione del panorama degli istituti di cultura all’estero. A differenza degli “omologhi” europei come i British Council o i Goethe Institute, non sono indipendenti rispetto alle università “ospitante”. Come spiegare questa unicità?

Appoggiarsi a istituzioni accademiche nei diversi Paesi offre sicuramente una serie di vantaggi tra cui la possibilità di raggiungere un pubblico giovane. Senza dimenticare che gli atenei individuati sono spesso i più prestigiosi. È stata una scelta da parte del governo cinese che sì caratterizza gli Istituti Confucio, ma la divisione dei ruoli potrebbe addirittura rivelarsi uno strumento in più per l’università italiana. Si potrebbe infatti leggere anche al contrario questo aspetto: cioè come un modo per la Cina di accettare le regole di chi “ospita”.

Un anno fa, di questi tempi, il dibattito sugli Istituti si riaccendeva sulle pagine del Corriere della Sera con uno scambio di lettere tra Stefania Stafutti, direttore di parte italiana dellIstituto Confucio dell’Università di Torino, e Maurizio Scarpari, sinologo che ha insegnato Lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso lUniversità CaFoscari di Venezia. Nell’arco di questo anno è cambiato il dibattito sugli Istituti Confucio?

Di dibattito c’è sempre bisogno. Non mi pare siano cambiati i termini perché si parla troppo poco delle attività degli Istituti Confucio. E non capisco bene cosa venga contestato agli Istituti Confucio italiani.

A tal proposito Scarpari scriveva di “paure e condizionamenti” invitando a liberarsene in fretta.

Nella mia esperienza ci sono solo dibattiti, scambi culturali e dialogo, di cui come le ho detto c’è sempre bisogno.

Le critiche agli Istituti Confucio a volte riguardano i temi non trattati più che quelli affrontati.

Allora gli Istituto Confucio non sono gli unici a non aver promosso un dibattito sulle questioni critiche. Come ho detto, mi occupo di storia religiosa e di questo parlo anche attraverso l’Istituto Confucio.

Immagino, però, che non sia l’unico docente.

Purtroppo siamo solo due docenti nel settore di Studi cinesi. La mia collega è una linguista. Ognuno ha le proprie competenze e le proprie risorse. Non ho ancora visto certe critiche dimostrate.

Fu proprio la professoressa Stafutti, rispondendo a Scarpari, a riconoscere che gli Istituto Confucio “svolgono un ruolo importante nella strategia di soft power della Cina”.

Sì, soft power è una cosa. Sharp power è un’altra. È logico che la diffusione della lingua avvicini al mondo cinese, come accade per ogni istituto di cultura all’estero. Invece, accuse di propaganda, infiltrazione e manipolazione non corrispondono all’esperienza di diversi anni che ho come direttore di un Istituto Confucio.

Mi sembra convinta che spesso si ignori cosa facciano gli Istituti Confucio.

Spesso si ignora il fatto che noi, attraverso questo progetto, abbiamo l’opportunità di incontrare e formare giovani insegnanti cinesi che poi opereranno in contesti internazionali o torneranno in Cina. Questo contatto può anche offrire loro la possibilità di aprirsi e di conoscere un sistema e un modo di operare diverso da quello cinese. Per noi, invece, l’Istituto Confucio è stato anche un volano per l’attrazione del nostro ateneo in Cina.

C’è un’idea di reciprocità, dunque?

Nei fatti c’è uno scambio in ambedue le direzioni e non soltanto nella direzione spesso riportata dai giornali (verso la Cina, ndr).

L’Istituto Confucio non è monodirezionale secondo lei?

Nel momento in cui crea un contatto e rapporti con le università cinesi no.

Perché allora non istituzionalizzare questa reciprocità con istituti di cultura italiani nelle università cinesi partner dell’Istituto Confucio?

Sì, perché no? Io sarei d’accordo. Ma questi sono accordi che andrebbero fatti a livello politico, non di singole università.

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