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Dimentichiamo per un attimo le considerazioni politiche dietro all’attacco di Renzi al governo. La vera distanza di Renzi da Conte sul Recovery Plan concerne l’utilizzo pieno delle risorse da Bruxelles come aggiuntive e non (parzialmente) sostitutive di progetti già messi in cantiere dal governo.

Si tratta di 87 miliardi di euro sui 200 del Next Generation EU che Gualtieri, prudentemente (o pavidamente, a seconda delle inclinazioni di lettura di ciascuno), vorrebbe impiegati per sostituire impegni di spesa già assunti (e quindi risorse da trovare sui mercati finanziari) e che Renzi vorrebbe destinati a progetti nuovi.

Naturalmente, il fatto che i progetti nuovi sostituiscano impegni di spesa già assunti nulla ci dice sulla bontà dei progetti stessi, sulla quale si potrebbero sollevare tutta una serie di perplessità.

Quello che interessa qui sottolineare è l’impatto macroeconomico delle due scelte. La scelta del governo diminuisce l’impatto sul debito (che, lo ricordiamo, si attesta oggi intorno al 160% del Pil) ma anche sul prodotto potenziale, se i progetti già varati dovessero avere moltiplicatori fiscali inferiori a quelli di nuova concezione.

La scelta-Renzi innalza subito l’indebitamento di 7,8 punti percentuali. Ma se i progetti nuovi si rivelassero a maggior valore aggiunto potrebbero portare effetti moltiplicatori tali da far scendere, nel tempo, l’indebitamento.

Una scommessa. Come quella di Keynes. Che dipende da tre fattori.

Il primo: la capacità del paese di ideare, implementare, spendere e rendicontare progetti per 200 miliardi ad altorvalore aggiunto entro il 2026 (l’orizzonte temporale in cui si chiude il NGEU). La bozza di PNRR non va in questa direzione. Né va in questa direzione il documento politico, ben poco tecnico (quindi inutile a fini pratici) proposto da Italia Viva sul Recovery Plan. Un panorama non certo incoraggiante, visto che il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza va presentato il prima possibile.

Il secondo: che la Bce continui a tenere bassi gli spread, perché i mercati finanziari internazionali sono un po’ meno indulgenti dell’Unione Europea nei confronti dell’irresponsabilità cronica della classe politica del paese di assicurare scelte volte alla crescita di lungo periodo, piuttosto che a logiche consensuali di corto respiro.

Il terzo: che valga quello che Alfred Marshall chiamava il coeteris paribus; in questo caso, che il Patto di Stabilità e Crescita e tutte le regole della governance economica europea vengano congelate fino a data da destinarsi. Cosa improbabile, su un orizzonte temporale di medio periodo. Perché quando qualche regola fiscale sarà re-imposta per assicurare finanze pubbliche non-destabilizzanti e diminuire l’azzardo morale dei futuri governi, il livello dell’indebitamento conterà eccome. E sarà quindi necessario tenerlo il più possibile a freno. Perché, e qui si annida il paradosso della scommessa Keynesiana di Renzi, per assicurare il rispetto delle regole di finanza pubblica potremmo essere costretti ad ammortizzare le nuove spese per investimenti con la riduzione della spesa per servizi essenziali, tornando a quell’odiata austerità che ha caratterizzato la risposta immediata alla precedente crisi dei debiti sovrani in Europa del 2010-12.  Un esito che metterebbe in difficoltà il futuro governo ed i rapporti con l’Unione Europea (che verrebbe nuovamente vista come chi ci impone scelte difficili).

Esiste un modo per uscire dal paradosso? Certo, ne esistono due, come la vicenda di Keynes ci insegna. Il primo è chiudere le frontiere e reflazionare l’economia con i mezzi a nostra disposizione. Una soluzione di dubbia efficacia in un modo sempre più interdipendente e con un’economia di trasformazione come quella italiana. L’altra soluzione è di tentare di convincere tutti gli altri paesi, come tentò di fare Keynes a Bretton Woods, di reflazionare tutti insieme.

Che è poi quello che ha scelto di fare stavolta l’Unione Europea. Rifiutarsi oggi di stare alle condizioni dettate per quella reflazione collettiva (ossia presentare un piano credibile, serio ed articolato secondo i criteri richiesti dalla Commissione), possibilmente in un contestgo politico stabile, ci pare sia un suicidio collettivo.

Renzi e il paradosso Keynesiano

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