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Difficile non condividere le preoccupazioni di Paolo Gentiloni. Quel suo grido rivolto soprattutto, ma non solo, al governo italiano e alle forze di maggioranza. Fate bene e fate presto. Superate rapidamente quella maledizione che il Paese, insieme alla Spagna, sembra portarsi dietro. Quell’incapacità di utilizzare le risorse finanziarie che l’Europa, negli anni, aveva messo loro a disposizione. Ma che alla fine non sono mai state spese interamente. E allora non c’erano i vincoli qualitativi che sono caratteristica del Recovery Plan. Perché in passato era sufficiente procedere, nei tempi giusti, ad impegnare quei fondi e poi spenderli per evitare la ghigliottina della revoca. Nei prossimi mesi, invece, si dovranno spiegare il perché di tante scelte e in che modo esse potranno contribuire a una possibile ripresa delle singole economie.

Non basterà quindi tappezzare il territorio di rotonde per il traffico, come è avvenuto in passato, in tanti territori del nostro Sud, mentre i grandi assi viari rimanevano più o meno quelli della Cassa del Mezzogiorno. Né si potrà dar luogo alle mille mance, mascherate da incentivi, come traspare dal lungo elenco di decreti varati dal governo Conte e dall’ultima legge di bilancio: dove si è raggiunto forse un record da guinness dei primati. Le spese che “danneggiano l’ambiente”, ha fatto osservare con eleganza il commissario europeo, “o che tendono a favorire consensi effimeri” non saranno accettate dalla Commissione. Se una persona misurata come Paolo Gentiloni rompe il riserbo in questo modo il segnale di pericolo è evidente.

È allarme rosso in quel di Bruxelles, con le principali cancellerie che capiscono sempre meno la situazione politica italiana. Quella complicata litigiosità tra maggioranza e opposizione, ma soprattutto all’interno della stessa maggioranza: tutta giocata sull’unica frontiera che, in Italia, sembra contare per davvero. Che è quella della gestione del potere. Che, a sua volta, finisce per alimentare comportamenti che hanno una valenza esclusivamente comunicativa. Ed ecco allora la distribuzione dei pacchi natalizi, con tanto di scorta giornalistica al seguito. Oppure quei viaggi a Bengasi, per rivendicare il merito della liberazione dei marittimi italiani.

Azioni che non varrebbe nemmeno la pena registrare, se le coordinate della politica italiana fossero altre. Se una classe dirigente fosse in grado di prendere su di sé il rischio di guidare il Paese verso un qualsiasi orizzonte, invece di fare a gara nel tentativo di rubarsi reciprocamente piccole fette del possibile consenso. Nella cultura del Novecento, che rimane fondamento dell’esperienza europea, la politica aveva al suo centro la necessità della leadership. Erano le avanguardie o i professionisti della rivoluzione che dovevano e volevano guidare le masse verso un destino di emancipazione. Oggi si tenta invece si seguire il gregge. Perché solo la spersonalizzazione può garantire le prebende del piccolo o grande potere personale.

Uno spettacolo, da tempo, poco edificante. Ma che ora rischia anche di divenire totalmente improduttivo. Lo sforzo europeo nel finanziare, con oltre mille miliardi, la resilienza dei Paesi membri, ha marcato una discontinuità profonda con il passato. Ma non tutto è andato nel migliore dei modi. Molte le riserve espresse a partire dal gruppo dei Paesi “frugali”. Non ci sarà pertanto indulgenza nei confronti dei singoli competitor. Ma una sorta di darwinismo istituzionale. Se sei in grado di correre bene, altrimenti esci dalla gara. E per un Paese come l’Italia, sarebbe il disastro. Nell’ultimo rapporto Cebr, che proietta lo stato del mondo (193 Stati) al 2035, il crollo dell’economia italiana, e quindi della società, è totale. Scenderà dal settimo al quattordicesimo posto della classifica complessiva. Con un balzo all’indietro che è esattamente al top tra tutti i Paesi considerati. Solo la Grecia andrebbe leggermente peggio.

Che fare allora? “L’Italia”, ha ammonito Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse, “ha bisogno di aumentare la crescita a lungo termine, per consentire un nuovo aumento del tenore di vita e per garantire che il debito pubblico sia gestibile”. L’Ocse, com’è noto, nacque all’indomani della Seconda guerra mondiale, per gestire soprattutto le risorse del Piano Marshall. E il clima di oggi non è poi così diverso. Lo ricordava Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, commentando il numero dei decessi intervenuti durante l’anno: pari a quelli del 1944.

Il successo del Piano Marshall, come ricordava Claudio Tito dalle pagine di Repubblica, fu garantito dal Piano casa di Amintore Fanfani. Giusto. Ma questo fu solo un’appendice. Il perno della Ricostruzione, che si trasformò poi nel “Miracolo italiano”, fu l’apertura degli scambi, dopo i nefasti dell’autarchia. Fu la sferzata che spinse milioni di persone, pur tra immensi sacrifici, a rimettersi in cammino. A prendere la via dell’estero, se necessario: quando il Paese non era in grado di offrire loro un destino migliore. A congelare, pur tra mille polemiche con gli stessi economisti americani, i fondi ricevuti per costituire, presso la Banca d’Italia, le riserve valutarie indispensabili per supportare gli scambi internazionali.

C’era, in altre parole, un’idea da perseguire. Quindi una strategia conseguente. Quel che oggi manca all’Italia. Parlare in modo generico di investimenti, di green deal, di digitalizzazione e come accennare agli ingredienti di una torta, senza avere in testa il dolce che si intende portare a tavola. Di queste lacune, i vertici europei sono consapevoli. Guardano a una realtà che in Europa pesa per il 15 per cento, come prodotto interno lordo dell’Eurozona e per il 17,5 per cento come popolazione, e incrociano le dita. Temono, giustamente, un’eventuale fallimento. E pregano Paolo Gentiloni di farsi interprete di uno stato d’animo che mira a salvare l’Italia, ma solo per scongiurare un disastro maggiore.

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