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È il giorno delle accuse tra Azerbaijan e Armenia, dopo che ieri gli scontri hanno centrato aree civili sia nella regione contesa del Nagorno-Karabah sia nelle zone limitrofe. È ormai la seconda settimana di combattimenti e non c’è per ora l’ombra di una possibilità di tregua. Le autorità regionali – che si trovano all’interno dei confini dell’Azerbaigian ma godono di un’indipendenza de facto e ha una maggioranza armena– sostengono che le forze azere hanno colpito case, infrastrutture e strade nella capitale Stepanakert.

Baku rilancia: l’artiglieria armena (fornita dalla Russia) ha centrato più obiettivi a Ganja – 330mila abitanti, la seconda più grande città del Paese, ben al di fuori dalla regione contesa. Per gli azeri, l’attacco è arrivato dall’Armenia, non dal Nagorno-Karabah; Yerevan rilancia sostenendo che le operazioni dell’Azerbaijan hanno obiettivo offensivo.

La Croce Rossa condanna “bombardamenti indiscriminati” da parte di entrambi i fronti, sottolineando che l’uso di armi esplosive ad ampio raggio anche se contro obiettivi militari in aree popolate può comunque “violare il diritto internazionale umanitario, che proibisce attacchi indiscriminati e sproporzionati”. Il contesto internazionale è un elemento da non sottovalutare, perché diversi Paesi svolgono un ruolo non secondario nella crisi.

Su tutti Turchia – sul lato azero – e Armenia, collegata alla Russia da Unione euroasiatica e Organizzazione del Trattato per la sicurezza collettiva. Organizzazioni pesanti, che rischiano di portarsi dietro un maggiore coinvolgimento di Mosca, che il Cremlino fondamentalmente sembra voler evitare salvaguardando però la propria sfera di influenza caucasica. Per questo cerca contatti in Francia (duro con Baku per via dei collegamenti con la Turchia, considerata ostile da Parigi) e pure a Washington (che però attualmente ha la testa altrove, tra elezioni e Covid presidenziale.

Diplomazia con cui spingere il deconflicting attraverso il cosiddetto Gruppo di Minsk – entità negoziale che lavora patrocinato dall’Osce evocata anche in un’intervista a Nova dal presidente della commissione Esteri della Camera italiana, Piero Fassino (Pd). Nei giorni scorsi, parlando al Parlamento turco, il presidente Recep Tayyip Erdogan ha accusato direttamente l’Armenia per la ripresa dei combattimenti e ha detto che i “fratelli azeri attendono il giorno in cui torneranno nella loro terra” (Ankara chiama i cittadini di Baku “fratelli” per via delle connessioni profonde, anche etniche, che legano i due Paesi).

Non bastasse, il quadro è ancora più largo se si considera l’Iran, altro importante attore regionale e paese confinante con Azerbaigian e Armenia. Baku e Teheran hanno relazioni piuttosto fredde, ma Teheran ha chiarito che sta lavorando per la pace, ma ha anche annunciato che non tollererà un’eventuale allargamento delle ostilità al proprio territorio – questione che porterebbe a una reazione iraniana. E in più è chiamato in ballo Israele: l’Armenia ha ritirato il proprio ambasciatore e ha chiesto allo Stato ebraico di sospendere la fornitura di armi tecnologicamente avanzate a Baku. Ma per Tel Aviv la partita è ben diversa: gli accordi militari con gli azeri si abbinano alle indispensabili forniture di petrolio che arrivano in Israele (circa il 40 per cento del totale parte dall’Azerbaijan).

Questioni ampie che impediscono a certi Paesi di restare di fatto neutrali e che aprono al rischio evidente di internazionalizzazione del conflitto – che significherebbe un prolungamento dei combattimenti. Tutto mentre aumentano le vittime tra i civili, una ventina per entrambi i fronti (su un totale di circa 200) e le prime salme dei miliziani siriani movimentati dalla Turchia sarebbero rientrate in patria.

Nagorno-Karabah, il rischio che il conflitto diventi internazionale

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