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La sostenibilità “suona sempre due volte”: la prima perché la sua assenza ha determinato l’esplodere della pandemia e dei suoi impatti e la seconda perché impone che si progetti un futuro diverso. La lotta ai virus accompagna l’evoluzione della specie umana. Dopo Sars e altre “prove generali di pandemia”, scienziati e istituzioni internazionali (Banca Mondiale, Oms, Wef, Unep) avevano inserito le Emerging Infectious Diseases tra i rischi globali per la salute pubblica.

Volendo fare un po’ d’ordine, quattro gruppi di fattori ambientali e sociali sono all’origine della pandemia e delle sue conseguenze: 1) ecosistemi; 2) clima; 3) demografia e composizione sociale; 4) globalizzazione. Siamo noi la specie del Pianeta che ha alterato l’equilibrio ecosistemico (come dimostrato da studi sul rapporto tra biodiversità e zoonosi) creando spazio ad allevamenti e coltivazioni intensive per nutrire una popolazione mondiale raddoppiata negli ultimi 50 anni. Abbiamo ridotto quel “cuscinetto” che separava la specie umana dai virus presenti negli habitat naturali, facilitandone il salto di specie. Abbiamo dato un calcio a un alveare, come ha raccontato efficacemente nel 2012 David Quammen in Spillover.

La modifica delle fasce climatiche determina spostamenti di specie e aumenta il rischio zoonosi. Il peso del cambiamento climatico è anche socialmente squilibrato e riflette una disuguaglianza drammatica tra le classi più agiate del Pianeta e il resto della popolazione, come evidenzia l’ultimo rapporto Oxfam.

La pandemia si è innestata su riduzione dei livelli di welfare, sull’invecchiamento demografico nei paesi sviluppati, su territori con concentrazione di attività economiche e commerciali ed inquinamento atmosferico che pesa sulle precondizioni di salute di molti soggetti, come dimostrano gli studi sulle concentrazioni di PM 2,5 e NOx in Lombardia, esponendoli a più gravi conseguenze respiratorie del virus.

Ispirata alla peste manzoniana che aveva colpito anche il potente Don Rodrigo, l’idea che la pandemia non facesse distinzioni di ceto è stata smentita. Il virus colpisce in misura maggiore chi è più esposto nella struttura sociale e di genere di una comunità a causa degli spazi di vita limitati e delle poche alternative di reddito. Secondo la Johns Hopkins University, Covid-19 ha colpito di più negli USA gli strati meno abbienti della popolazione, in particolare afroamericani (che rappresentano il 13 % della popolazione ma il 34% dei colpiti da coronavirus e con tassi di letalità fino a 4 volte superiori alla media). Gli studi effettuati hanno mostrato maggiori impatti economici e sociali per le fasce a più basso reddito e che la contrazione di spesa è sempre asimmetrica: gli alti redditi hanno riserve patrimoniali e reti di protezione.

La carenza dei sistemi di welfare ha avuto un triplo effetto sociale negativo: 1) calo improvviso delle entrate economiche; 2) assenza di corrispondenti entrate fiscali statali; 3) scarsità di risorse da utilizzare come sostegno provvisorio dello Stato.

Il blocco dell’educazione per ragioni sanitarie ha un ovvio impatto su quei giovani che, al contrario dei loro coetanei a più alto reddito, non beneficiano di apprendimento “smart”, aumentando così un divario che condiziona le chance di mobilità sociale. Si è approfondito il digital divide tra amministrazioni pubbliche, aziende, mansioni, categorie di lavoratori, lasciando indietro strati sociali per ragioni anagrafiche e di formazione.

L’economia del Pianeta è quasi quintuplicata dal 1990 al 2019 e la globalizzazione ha portato un numero record di collegamenti aerei e viaggi di passeggeri (da 1,5 miliardi nel 2000 a più di 4 al 2017, secondo la Iata). Legata all’integrazione delle filiere produttive, della logistica e della distribuzione su scala mondiale e in generale all’interdipendenza delle economie, la mobilità delle persone ha cambiato la velocità della pandemia. Sars-Cov-2 ci ha messo poche settimane per bussare alla porta di casa nostra.

Infine, e ne abbiamo testimonianza in questi giorni, i fattori soggettivi: dall’adeguatezza delle leadership alla consapevolezza della società civile. Il concetto di rischio è familiare nella grande industria ma a livello sociale siamo poco attrezzati culturalmente e psicologicamente ad accettare drastiche misure di prevenzione fino a che gli eventi non si manifestano in tutta la loro gravità. L’incertezza popola il nostro quotidiano insieme all’idiosincrasia verso i dettami basilari della scienza, frutto di secoli di progresso umano.

Guardare quindi al Covid- 19 come un fenomeno “a sé stante”, separato da altri temi, ha portato ad approcci inadeguati al problema. Oltre a questa visione di system thinking, si può provare a delineare alcune possibili strade per il futuro.

La sostenibilità, come insieme dei fattori ambientali, sociali ed economici per un corretto utilizzo delle risorse del Pianeta e per preservare valore per le generazioni future (immaginiamo la cornice di riferimento dei Sustainable Development Goals dell’ONU) deve fare ora il suo “salto di specie”.

Come? Accelerando sulla transizione energetica verso le fonti rinnovabili più promettenti come il solare ed eolico offshore flottante, le maree e il moto ondoso, il vento troposferico, l’idrogeno), con il gas come bridging fuel e incentivando tecnologie di cattura e confinamento della CO2 per quelle fonti fossili che continueranno a pesare nel mix energetico; ristrutturando l’edilizia privata anziché consumare nuovo territorio intorno alle città; proteggendo gli ecosistemi più a rischio dal punto di vista della virosfera ma con programmi di riconversione delle piccole economie locali; incoraggiando (nella cornice del Recovery Fund) gli investimenti per la mobilità sostenibile; investendo per ridurre il digital divide anche nella P.A.; rendendo flessibile il lavoro smart non solo per l’impresa ma anche per il lavoratore per un migliore equilibrio vita-lavoro basato su obiettivi, organizzazione matriciale e boundary management, evitando di trasformarlo in “lavoro agile selvaggio”. Evitando che la crisi penalizzi soprattutto le donne estendendo il più possibile i congedi parentali e incoraggiando le pari opportunità nelle imprese, senza derogare a merito e competenze.

A parte le arretratezze dei sistemi sanitari in molte aree del mondo (non solo per gli effetti della pandemia) va anche ripensata l’assistenza nei paesi evoluti, con una sanità pubblica e una medicina di territorio e di prevenzione.

Il ruolo consultivo e di coordinamento delle organizzazioni internazionali è necessario ma va migliorato perché c’è bisogno di autorevolezza e credibilità sovranazionale, a livello scientifico e politico-istituzionale.

Il biologo britannico Peter Medawar definì i virus “frammenti di cattive notizie avvolte in una proteina”. Forse la buona notizia è che ora conosciamo le cattive notizie. Questa conoscenza va ora rivolta a prevenire quelle conseguenze che comprometterebbero la nostra capacità di resilienza e di ripresa e l’assetto della società civile e delle sue istituzioni. La Sostenibilità può essere la stella polare di una nuova “Teoria dell’interesse generale”, che “suoni la seconda volta” alla nostra porta, evitandoci di pagare un prezzo che l’umanità non può più permettersi.

Marco Stampa è Corporate Sustainability Manager di Saipem, Donato Calace e Nicoletta Ferro sono rispettivamente Vice President of Account and Innovation e Customer Success Director di Datamaran

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