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La reazione del governo alla seconda ondata della pandemia, largamente anticipata nella narrativa precedente e successiva al primo lockdown, richiama una forte sensazione di “deja vu”.

La sorpresa della prima ondata si era dispiegata in una reazione, che possiamo definire come “incrementale” e improntata a tre successivi atteggiamenti: diniego, riconoscimento e dramma. Nonostante la bontà conclamata del sistema della sanità e di quello della Protezione civile in Italia, queste tre fasi documentano ancora una volta la mancanza di preparazione adeguata del sistema pubblico italiano, e la capacità di predisporre e gestire piani e progetti, rispetto agli imprevisti e ai rischi crescenti dell’economia globale.

Per questo si può forse comprendere, ma non approvare, il fatto che il governo tenti di sopperire a tale mancanza attraverso una frenetica attività di misure di intervento scoordinate e progressive. La fase di diniego, comune a molti Paesi e, tra prudenza e ambiguità, anche all’Oms, consisteva nel derubricare la pandemia alla categoria di rischio minore, da cui ci si poteva guardare con misure largamente già comprese nei protocolli sanitari internazionali, e che quindi non richiedeva azioni particolari.

La fase di riconoscimento, a fronte di una non più negabile progressione dei contagi e la dichiarazione ufficiale di status di pandemia da parte dell’Oms, comportava un capovolgimento della narrativa minimalista della fase di diniego, e un conseguente profluvio di interventi da parte del governo. Questa fase coincideva anche con la proliferazione dei comitati scientifici e delle task force e con l’immissione massiccia della narrativa medico-epidemiologica nel discorso pubblico sulla pandemia e la sua gestione. Nella fase finale di dramma nazionale (ce la faremo), il lockdown totale “chiudeva”, almeno temporaneamente, la partita.

Nella seconda ondata abbiamo di fatto riattraversato quasi interamente le stesse tre fasi (siamo vicini all’ultima, che ancora non possiamo in gran parte prevedere). Nonostante il deja vu, la situazione si presenta più preoccupante di quella sviluppatasi dopo la prima apparizione del virus, perché la emergenza sanitaria si intreccia con una emergenza economica e sociale sempre più difficile da governare.

La ripartenza dell’economia nel terzo trimestre, che aveva fatto sperare in un rapido recupero dei settori più colpiti, appare ora molto meno incoraggiante. Ciò nonostante, lo scenario internazionale continua a presentare segnali positivi, quali il rimbalzo degli scambi commerciali, il ritorno della crescita in economica in Cina e, seppur in tono minore, anche negli Stati Uniti, e la tenuta complessiva dei mercati finanziari. Appare quindi prudente attendersi un quarto trimestre con performance meno positive di quanto ci si aspettava, e con implicazioni negative sull’intero prossimo anno, ma non un tracollo economico e finanziario. Allo stesso tempo, gli effetti perversi sui redditi più bassi, sulla ineguaglianza e sulla povertà sono amplificati dalle prospettive di nuove e incerte restrizioni, lockdown più o meno generalizzati, e un probabile peggioramento del quadro internazionale.

Il peso delle restrizioni grava soprattutto sugli occupati meno qualificati e più precari, sulle piccole imprese delle filiere dei settori più deboli, quali quelli dei servizi al pubblico, o più dipendenti dalle esportazioni e dai flussi internazionali di viaggiatori, quali il turismo e le attività di intrattenimento e di cultura. Di fronte al riesplodere della pandemia, il quadro economico europeo è anche cambiato radicalmente e le caratteristiche e il ruolo del Next Generation EU (Ngu altrimenti detto Recovery Fund), sono tutte da ridisegnare.

Nella aspettativa di una improbabile normalizzazione, che ora sappiamo non potrà trovare le condizioni per avvenire prima della fine del prossimo anno, e che comportava la fine dell’emergenza sanitaria, ci si immaginava che, insieme con la sospensione del patto di stabilità e il ritrovato spazio fiscale per Paesi ad alto debito come l’Italia, l’Ngu costituisse la opportunità per rilanciare la crescita attraverso una politica fiscale di tipo solidale, basata su scelte strategiche sovranazionali e su una nuova capacità di programmare e gestire grandi progetti europei.

Queste aspettative sono state disattese dagli sviluppi successivi delle decisioni dei governi e della Commissione che sembrano aver reinterpretato le nuove risorse come una forma particolare di fondi strutturali atti a compensare i Paesi più colpiti dalla pandemia, salvandoli da una probabile trappola depressiva, e consentendo il finanziamento della ripresa attraverso una massa critica di investimenti pubblici strategici e di riforme strutturali. Ma anche questa interpretazione sembra ormai obsoleta, perché risorse aggiuntive saranno immediatamente necessarie soprattutto per consentire alle economie dei Paesi membri di uscire dalla seconda ondata senza un tracollo rovinoso delle loro componenti produttive e sociali più fragili.

La narrativa sulla natura salvifica dei fondi europei appare quindi compromessa dal fatto che la loro approvazione non sembra coincidere con una reale svolta europea nelle politiche fiscali, ma anche dalla necessità di intervenire immediatamente con tutte le risorse disponibili, per far fronte a un peggioramento inatteso, simultaneo e drammatico della situazione economica e sanitaria.

Nel breve termine, l’unica politica economica praticabile è necessariamente basata sulla espansione della spesa pubblica, con una molteplicità di funzioni: contenimento della pandemia, ristoro per i settori e le fasce sociali colpite, stimolo dei consumi e degli investimenti privati. Per quanto l’espansione della spesa possa preoccupare in termini di debito pubblico e di pagamenti differiti, l’alternativa sarebbe un inaccettabile collasso sanitario, economico e sociale.

Allo stesso tempo, una espansione fiscale a livelli mai sperimentati nel passato crea il rischio di dissipare risorse preziose in una pluralità di interventi inefficaci, perché privi di una prospettiva di miglioramento strutturale con effetti incisivi e immediati sulle aspettative degli operatori. Soprattutto, appare necessario non perdere la opportunità di utilizzare l’inattesa estensione dello spazio fiscale e le risorse pubbliche che tale estensione e i fondi europei consentono di mettere in campo, per interventi che oltre allo stimolo immediato, abbiano effetti di lungo termine sulla produttività e sulla crescita sostenibile.

È questo il senso di un’autentica politica fiscale “keynesiana”, in cui l’intervento pubblico ha la funzione insostituibile di compensare la caduta degli investimenti privati, mantenendo la domanda di beni capitali a un livello coerente con la crescita futura e quindi sostenibile nel lungo termine. Per sostenere la domanda ed evitare allo stesso tempo la deriva di una espansione incontrollata della spesa corrente, c’è però bisogno di coerenza programmatica, tempestività e coordinamento delle politiche di spesa e attenzione costante agli investimenti. Con la recrudescenza della pandemia e la tendenza del governo a procedere ad azioni incrementali sulla base di informazioni imperfette e transitorie, è più difficile conciliare investimenti e interventi distributivi, ma non impossibile, se teniamo conto dell’impatto della spesa pubblica sulle varie forme di capitale materiale e immateriale coinvolte.

Anzitutto, la sanità e la Protezione civile hanno bisogno immediato di capitale umano, attrezzature, impianti, logistica e materiali. Le carenze del sistema sono documentate per esempio dal suo fallimento nel proteggere i residenti vulnerabili delle case di cura dalle infezioni e dalla morte, ma anche dalla palese perdita di controllo di molte strutture sanitarie sotto l’impeto della nuova ondata pandemica. Molti degli investimenti sono urgenti perché riguardano direttamente il contenimento del virus, possono essere fatti immediatamente, e molti di essi avrebbero già dovuto essere parte degli interventi prima della seconda ondata del virus. In secondo luogo, la rete di protezione sociale può essere rafforzata, anche in questo caso, con azioni immediate che creino capitale sociale, e, quando già esiste, ne promuova l’efficienza.

In questo contesto, le misure più importanti e difficili da calibrare sono quelle che riguardano le famiglie e i soggetti più vulnerabili, ossia le politiche distributive. Benché per queste misure sia più difficile mantenere la distinzione tra spesa corrente e investimenti, è evidente che interventi mirati e incisivi di sostegno dei redditi attraverso trasferimenti e programmi di assistenza alle famiglie più povere e più colpite dalle conseguenze economiche della pandemia sono assolutamente preferibili agli interventi a pioggia fin qui sperimentati.

Infine, trasferimenti mirati alle imprese possono avere una funzione di risarcimento e di ristoro che attenua le conseguenze sociali ed economiche delle misure restrittive imposte dal governo, impedisce una caduta rovinosa degli investimenti privati, e allarga il consenso in un momento in cui la fiducia reciproca è una variabile critica di coesione sociale del Paese.

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Nel breve termine, l’unica politica economica praticabile è necessariamente basata sulla espansione della spesa pubblica, con una molteplicità di funzioni: contenimento della pandemia, ristoro per i settori e le fasce sociali colpite, stimolo dei consumi e degli investimenti privati. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo

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