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Stallo apparente. La compagine dei partiti di opposizione, di fatto, non sembra aver subito particolari mutamenti rispetto all’epoca pre Covid. Tanto più che l’unico dato che rileva, stando agli ultimi sondaggi, è un travaso tra le preferenze espresse per Matteo Salvini passate a Giorgia Meloni. Ma le difficoltà dell’opposizione, come analizza lo storico e direttore della School of Government della Luiss, Giovanni Orsina, “precedono l’avvio della seconda ondata pandemica”. E, precisamente, datano “dalle elezioni regionali: l’ultimo momento nel quale si ci si è potuti misurare con i voti espressi dall’elettorato”. L’analisi del politologo si può dividere idealmente in due fasi temporali che corrispondono alla prima ondata di Covid (tra marzo e maggio) e l’attuale recrudescenza del virus. “Nell’ambito della prima fase pandemica – sostiene Orsina – gli spazi per la minoranza erano oggettivamente limitati, tanto più che l’attenzione era concentrata esclusivamente a capire come far fronte a un nemico ancora sconosciuto. Adesso invece le circostanze sono completamente diverse. Potenzialmente ora l’opposizione avrebbe molto più margine di azione che però non viene sfruttato fino in fondo”. Sostanzialmente alla base di questo stato semi comatoso in cui versa la coalizione di centrodestra c’è “un problema di strategia”. In special modo “nel Carroccio”.

“Fermo restando che in occasione di un’eventuale consultazione elettorale, se restasse il sistema di voto attuale, la coalizione si presenterebbe unita – analizza il docente – nel centrodestra stanno facendo i conti con tre strategie differenti fra di loro. All’interno della Lega, il leader Matteo Salvini fatica a trovare un’alternativa valida alla tattica della ‘spallata’”. La domanda è quindi se in effetti “il leader leghista sarà in grado di affrontare la nuova sfida e giocare con un altro schema. Nel frattempo, Fratelli d’Italia conquista spazi sempre più evidenti, cosa che prima non avveniva”. Per una ragione tutto sommato semplice: “Salvini fino a un anno e mezzo fa era il fulcro attorno al quale tutta la scena politica italiana ruotava (non dimentichiamoci, ad esempio, che l’attuale esecutivo è nato in chiave anti-salviniana), perché è stato in grado di ‘surfare’ abilmente il tema migranti. E Meloni ha essenzialmente raccolto le briciole. Ora che l’attenzione è sulla pandemia, il leader del Carroccio paga pegno a Meloni che invece adesso cresce”.

D’altro canto, il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, “imposta una strategia politica che è indissolubilmente legata alla strategia aziendale”. Il vero aspetto che potrà determinare cambi sostanziali nello scacchiere politico, a detta di Orsina, è legato “a come il Paese uscirà da questa pandemia”. O meglio “quanto arrabbiato uscirà l’elettorato dall’emergenza sanitaria, fermo rimanendo che già c’entrava con una buona dosa di insoddisfazione e insofferenza”.

A questo punto, ma solo allora, “si potrà capire se la strategia di Salvini potrà eventualmente ritornare di moda”. A pandemia superata, però, Orsina intravede anche un altro tipo di scenario: “La rabbia delle persone – analizza – potrebbe trovare un altro canale per esprimersi, intravedendo in Salvini il rappresentante – per così dire – della ‘puntata precedente’”. Nel frattempo, palazzo Chigi rumoreggia. Orsina non sa se ci sia un accordo tra Di Maio e Meloni potenzialmente insidioso per Giuseppe Conte.

L’aspetto però che il docente della Luiss rileva è che “Conte sta rischiando il collo”. Sebbene “la sua operazione di trasformazione in statista, tecnicamente, sia riuscita – considera Orsina – il premier in questa fase corre il pericolo di vedersi tramutare da salvatore della patria a capro espiatorio”. Se così fosse, “il futuro politico di Conte potrebbe essere quanto mai breve”. Da leggere tra le righe, il  caso Renzi, la cui parabola “si è compiuta nel giro di 24 mesi”. Anche sulla stabilità dell’esecutivo, e in particolare sui rapporti tra Movimento 5 stelle e Partito Democratico, Orsina non si sbilancia più di tanto, se non nella constatazione che “ai grillini non conviene in questo momento fare una scelta che li proietti in una dimensione diversa dall’ambiguità identitaria attuale. Quindi il patto di fusione con il Pd, ancora, non è definibile. Non foss’altro perché il Movimento 5 stelle ha fatto, ab origine in particolare, della mancanza di una collocazione politica precisa la propria bandiera.

Quindi cambiando questo aspetto sostanziale nel proprio dna, rischierebbe di vedersi erodere ulteriori consensi“. Mentre il Pd ”ha un bisogno estremo di sangue nuovo: è un partito esausto. Una formazione politica che regge, nonostante tutto, ma stremata”.

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