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Negli ultimi mesi il Covid ha portato alla saturazione gran parte delle strutture sanitarie nazionali, portando gli operatori e le associazioni di settore, ma anche l’opinione pubblica, a chiedersi se fosse davvero inevitabile arrivare a questo punto. Molte delle attività socio-sanitarie ordinarie sono venute meno, minando non solo quel diritto alla salute sancito dalla nostra stessa Costituzione ma anche i Livelli di assistenza essenziali che dovrebbero sempre essere garantiti. E generando nei pazienti cronici, e dunque fragili, un senso di abbandono. Ma era possibile arrivare più preparati alla pandemia? E quali misure avrebbero potuto garantire un miglior funzionamento del sistema sanitario, anche in condizioni di emergenza? Formiche.net ne ha parlato, a margine dell’incontro L’impatto sociale del dolore ai tempi del Covid-19 organizzato con il contributo non condizionato di Neopharmed Gentili, con Lisa Noja di Italia Viva, componente della commissione Affari sociali della Camera dei deputati e membro dell’intergruppo Innovazione.

Nel corso dell’emergenza Covid alcuni soggetti deboli, poiché affetti da malattie croniche, si sono sentiti messi da parte dal sistema sanitario, che non è riuscito a far fronte alle attività ordinarie a causa alla violenza con cui è esplosa la pandemia di Sars-Cov-2. Può farci qualche esempio?

Sicuramente tutti i pazienti affetti da malattie rare e che effettuano terapie continuative che necessitano del costante monitoraggio da parte dei centri specifici che li hanno in carico. Anche le persone con sclerosi multipla, o patologie similari, hanno riscontrato la stesso problema. Per non parlare poi di tutte le attività di prevenzione che sono venute meno.

Come?

È difficile fare un esempio perché sostanzialmente gran parte delle attività di prevenzione sono saltate. Possiamo parlare, però, degli screening neonatali, che sono una cosa che seguo da vicino. Nel corso del Milleproroghe è stata approvata un’importante norma che ampliava la lista di patologie da verificare nello screening neonatale, includendone alcune, come la Sma, che se scoperte per tempo e curate già nelle prime ore di vita, possono cambiare per sempre la vita del neonato e dell’adulto che sarà.

E…

E il processo è bloccato da mesi, il che significa che questi screening non vengono effettuati. Con effetti disastrosi sulle persone, che magari si trovano a convivere tutta la vita con malattie debilitanti e degenerative che invece potevano essere prevenute.

Da mesi ormai puntiamo il dito contro i deficit della sanità, che hanno impedito il corretto funzionamento del sistema durante la pandemia. Lei crede che ci siano delle colpe, o era impossibile arrivare preparati?

Se un ospedale viene investito da uno tsunami è chiaro che in quel momento tutto ciò che non è considerato emergenza, e cioè salvavita, viene posticipata. Rispetto alla prima ondata, però, si poteva arrivare più preparati, o comunque attrezzarsi per garantire le prestazioni minime anche durante la pandemia.

Era fattibile?

Diciamo che le difficoltà del potenziamento sono più ampie di quanto non si immagini. Quando si parla di potenziare le terapie intensive non vuol dire solo acquistare i ventilatori polmonari, ma anche reperire e acquisire personale specializzato in grado di utilizzarli. E invece, come denunciamo da anni, il nostro Paese ha una grave carenza di personale sanitario.

Quindi era fattibile o no?

Diciamo che se si fosse operato per tempo sicuramente non saremmo arrivati a saturare così tanto il nostro sistema. Le attività di potenziamento vanno realizzate in condizione di calma affinché funzionino in condizione di urgenza, non tirate su di fretta e furia nel pieno dell’emergenza. Altrimenti sono destinate a fallire. Abbiamo un sistema abituato a lavorare sempre in affanno, sempre in condizione di quasi saturazione. Siamo sicuri che sia una cosa normale?

Diversi ospedali hanno sospeso i ricoveri ordinari. È un po’ un fallimento, o una misura necessaria. O entrambe?

Dubito che qualcuno possa aver preso questa decisione senza ritenerla strettamente necessaria. Nessun primario o direttore sanitario farebbe questa scelta a cuor leggero. Detto questo, ripeto, c’è da chiedersi se non si poteva evitare in qualche modo di arrivare a questo. Soprattutto dopo averlo affrontato già mesi fa nel corso della prima ondata.

E perché non è stato fatto? Mancanza di fondi?

Più che parlare di mancanza di fondi, parlerei di quelli che sono stati stanziati e non abbiamo utilizzato. Purtroppo è un difetto strutturale del nostro Paese, avere delle risorse e lasciarle inutilizzate per tutta quella serie di complicazioni che conosciamo da sempre, dalle gare ai provvedimenti, dai bandi alla burocratizzazione. E poi, c’è da dire, quest’estate ci siamo un po’ illusi che le cose sarebbero andate bene.

C’è da dire anche, però, che spesso sono anche le persone a non recarsi negli ospedali per paura del Covid. O sbaglio?

Ma certo che le persone hanno paura del contagio. Sanno che i luoghi di cura sono più rischiosi perché ci sono più malati. Credo però che la politica abbia mandato un po’ un messaggio sbagliato, anche in via più generale.

Ci spieghi meglio.

Hanno dimenticato di spiegare agli italiani che il tema Covid non riguarda solo il Covid. Hanno riferito quanto sia importante non far morire gli anziani ma si sono dimenticati di dire che i contagi vanno tenuti bassi non solo per non morire di Covid, ma anche per evitare che si muoia di altro. Se arriva un malato di Covid e le terapie intensive sono piene, muore. Ma anche se arriva una persona che ha fatto un incidente in moto e le terapie intensive sono piene muore ugualmente. Il messaggio che è stato diffuso è un po’ che il Covid può colpire solo i più fragili, quando invece può colpire direttamente ma ancor più indirettamente tutti.

Legge 38/2010. Possiamo definirla una norma attuata?

A metà. Se gran parte delle soluzioni presenti in quella legge fossero state attuate, oggi saremmo sicuramente in una situazione migliore.

Eppure sono passati dieci anni…

Perché il problema in questo caso non è la carenza di una norma primaria, ma di esecutività della norma. Anche in questo il nostro Paese è molto carente, perché abbiamo tante buone norme che però rimangono solo dichiarazioni di intenti.

Un po’ come l’emendamento, a sua prima firma, all’art. 89 del Decreto bilancio. Cosa chiedeva e cosa ha ottenuto?

Chiedevo che fossero definiti dei servizi pubblici essenziali minimi da garantire anche durante le condizioni di emergenza. Ovvero, più nel dettaglio, un intervento specifico delle Regioni in tal senso entro il limite temporale di sessanta giorni. Una sorta di piano di emergenza che non solo garantisse il corretto funzionamento dei servizi pubblici essenziali, ma che indicasse anche come e quando sarebbero stati garantiti, affinché nel pieno di un’emergenza si sappia già come agire.

E a che punto siamo?

Ho depositato un’interrogazione. Dopo avremo sicuramente un quadro più chiaro. Nel frattempo, però, tante persone che avevano bisogno di assistenza si sono sentite abbandonate. L’esigibilità del diritto alla salute è una cosa che non può venire meno, nemmeno – e anzi, ancora meno – durante un’emergenza pandemica. Ci siamo ribellati per la chiusura delle scuole, abbiamo da sempre ritenuto impensabile la chiusura, che so, della metropolitana, però di fronte alla chiusura della salute non abbiamo fatto nulla. E invece i danni creati sono di vaste proporzioni, soprattutto nei loro effetti.

Durante l’incontro “L’impatto sociale del dolore ai tempi del Covid-19” si è parlato moltissimo di telemedicina e del ruolo che può assumere in condizioni di emergenza. Può farci qualche esempio?

Personalmente ho avuto modo di incontrare diversi soggetti che hanno avviato sperimentazioni molto interessanti ed efficaci. Un’azienda farmaceutica, ad esempio, ha messo a disposizione di alcuni centri per la cura del Parkinson un’app che garantiva il monitoraggio a distanza dei pazienti. Un altro esempio virtuoso è quello messo in atto dall’associazione dei reumatologi, che ha implementato un sistema di controllo a distanza dei pazienti. Ma c’è una cosa importantissima da dire, e cioè che la telemedicina non è fondamentale solo per gestire le condizioni d emergenza ma, al contrario, può dare un grande valore aggiunto anche nella quotidianità. Il monitoraggio costante dei pazienti non è garantito nemmeno in condizioni normali e questo potrebbe fare la differenza nella qualità della vita dei nostri pazienti e dei loro caregiver.

Cosa possiamo fare affinché vengano colmate le nostre lacune come già accade, ad esempio, in altri Paesi europei?

Serve la certezza del diritto. Una legge quadro che fornisca una struttura normativa unitaria come hanno già fatto Germania, Francia, Gran Bretagna e anche la vicina Spagna. Una normativa di rango primario impone che si dia corso a quanto viene proposto e consente agli operatori di agire all’interno di un quadro legislativo che sia chiaro, unitario e definito. Nel secondo dopoguerra il nostro Paese ha adottato alcune delle riforme più importanti del nostro Paese. Non possiamo definire il Covid come una guerra, ma è senz’altro una delle emergenze mondiali più grandi degli ultimi cento anni. Sarebbe auspicabile che, nella tragedia che ha generato, se servisse almeno per spronarci a migliorare il sistema e a non perseverare, ancora e ancora, nei nostri errori.

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