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In modo alquanto riduttivo, la chiusura dell’account Twitter del (fra poco) ex presidente Usa Donald Trump e, a cascata, il blocco di altri servizi di rete che ospitavano piattaforme riconducibili alla destra americana, hanno suscitato allarmi per lo strapotere assunto dalle Big Tech. Queste aziende, infatti, hanno dimostrato di poter intervenire autonomamente e secondo una propria loro agenda, nell’esercizio dei diritti politici in uno Stato sovrano.

Un fatto, questo, ampiamente noto da tempo e denunciato dalle Ngo che operano a tutela dei diritti civili, ma sempre di fatto molto in basso nell’agenda politica dell’Unione europea e dei singoli Stati membri.

Indicativa, in questo senso, la reazione del governo polacco che per evitare un “caso Trump” domestico ha presentato una proposta di legge che, per proteggere la libertà di espressione, impedisce ai social di decidere autonomamente se sospendere o meno l’account di un utente che non abbia violato la legge polacca. Se, tuttavia, a decidere il da farsi fosse un governo che “va per le spicce” invece di una magistratura che applica i principi della Carta di Nizza e la giurisprudenza della Corte di giustizia europea e della Corte europea dei diritti umani, allora la dichiarata “tutela della libertà di espressione” diventa in realtà un cavallo di Troia per consentire all’esecutivo di censurare chiunque senza passare da un controllo giurisdizionale.

Analogamente, le massime autorità ed istituzioni comunitarie hanno espresso preoccupazione per quella che è e rimane una scelta privata, di tipo contrattuale e dunque sindacabile solo da un tribunale. Ed è proprio questo il punto.

Non ha molto senso chiedersi in nome di quale legge Twitter e Facebook abbiano adottato le loro scelte, così come non ha senso auspicare che queste decisioni vengano assunte “nel rispetto della legge” come ha auspicato Angela Merkel.

Le leggi per regolare il comportamento delle Big Tech ci sono già e vengono applicate di continuo. Basta pensare alle azioni delle autorità indipendenti nazionali ed europee e alle controversie giudiziarie che coinvolgono le multinazionali del software e dei servizi “over the top”.

Nemmeno si pone un problema di giurisdizione, dal momento che in ogni Paese esiste una norma che consente di processare chi, dall’estero o all’estero abbia prodotto danni all’interno dei confini nazionali. Persino la Cina, come evidenziato su Formiche.net, si è dotata di leggi del genere. Quello che manca, invece, è una norma che consenta di rivolgersi a un giudice in modo rapido, economicamente sostenibile e che costringa il giudice a pronunciarsi in pochissimo tempo (ore, se non giorni). Di fronte, infatti, a un’asserita violazione dei termini contrattuali (come quella che si potrebbe astrattamente contestare a Twitter) se ci fosse un sistema che, senza dover affrontare le spese di una controversia internazionale, consentisse ad un giudice di valutare immediatamente il merito della questione e ordinare la riapertura, nel caso specifico, dell’account o la ripubblicazione di un contenuto, il problema sarebbe risolto. Per raggiungere questo risultato sarebbe necessario, tuttavia, un trattato internazionale che riconosca l’efficacia diretta delle decisioni emesse dalle corti di un Paese nei confronti di un altro. Il che, evidentemente, è impensabile.

La vicenda Twitter-Trump, dunque, fa esplodere tutte le contraddizioni di un’agenda comunitaria confusa che dietro una retorica poco efficace nasconda la non volontà di agire. Da un lato, dichiara di voler bloccare disinformazione e fake news e dall’altro invoca la limitazione dei diritti fondamentali, ma solo “in nome della legge” – quale che sia. Ma la narrativa comunitaria non si occupa dell’unico vero e delicato tema che dovrebbe essere discusso per evitare il ripetersi di quello che è accaduto: l’effettivo peso della sovranità europea nei confronti di aziende che operano al di fuori dei nostri confini.

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