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La chiusura dei teatri e delle sale di concerto – per ora sino al 24 novembre ma probabilmente prorogabile in mancanza di indicazioni evidenti di riduzioni di contagi, ricoveri, terapie intensivi e decessi – è una grave ferita perché colpisce al cuore la cultura, caratteristica identitaria di una Nazione. Minaccia, poi, una generazione di giovani artisti privi di tutele contrattuali, anche se in numero inferiore ai 700 mila lavoratori in nero (specialmente nel Mezzogiorno) nei comparti della ristorazione. Rattrista profondamente un notorio melofilo come me che, quando lavorava in Banca mondiale, tentava al meglio di scadenzare i propri viaggi di lavoro con il cartellone dei due maggiori teatri d’opera di Washington e che, nel 1973, riuscì a vedere ed ascoltare Roberto Devereux di Donizetti a Seul, nel 1975 Der Mond di Orff ad Addis Ababa e nel 1976 fece 20 ore di volo (con breve cambio di aereo a Londra) da Nairobi nella Nation’s Capital degli Stati Uniti per l’amatissimo Simon Boccanegra di Verdi diretto da Claudio Abbado.

Di fronte ad un virus subdolo ed altamente contagioso come il Covid-19 occorre fare alcune considerazioni sine ira et studio, come scrisse Tacito all’inizio dei suoi Annali. In primo luogo, i teatri sono un luogo di assembramento dove, specialmente se al chiuso, il virus può attaccare facilmente. Ha ferito artisti in varie sedi nelle ultime settimane. Non ci sono prove se abbia o non abbia infettato il pubblico dato che dall’inizio dell’autunno ha galoppato così velocemente da avere travolto il sistema di tracciamento e la flebile app Immuni. Sulla base delle mie visite a luoghi di spettacolo, le misure cautelative adottate in estate (ingressi ed uscite scaglionati, obbligo di restare seduti in eventuali intervalli, biglietti e programmi digitali) non sono state applicate sistematicamente e rigorosamente alla ripresa autunnale. Il che ha indebolito le richieste di coloro che volevano che teatri e sale di concerto non venissero colpite dalla chiusura.

In secondo luogo, non ci sono indicazioni di una domanda potenziale molto forte a favore di un’esenzione per teatri e sale di concerto. Il sondaggio Swg effettuato subito dopo la pubblicazione del Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) del 25 ottobre suggerisce che la metà degli intervistati sono indifferenti alla misura e che il 15% la avrebbero presa ancor prima. Ciò indica una modesta portata politica in termini di economia delle scelte pubbliche: un governo, travagliato al proprio interno ed alle prese con le reazioni di settori come il commercio ed i pubblici esercizi, non può rispondere che con una lettera ed un bacio in fronte alle richieste di modifica del Dpcm.

Ben diverso se ci fosse stato un supporto come quello mostrato dai viennesi nel 1948, quando nella Vienna occupata e divisa in settori (ben rievocata nel film Il terzo uomo di Carol Reed), cominciò ad operare il Piano Marshall. La regola di base era che i beneficiari dovevano presentare le loro richieste in un quadro programmatico ed in ordine di priorità. La delegazione viennese propose come prima priorità la ricostruzione della Staatsoper, il cui magnifico edificio era stato quasi completamente distrutto il 12 marzo 1945 proprio da un bombardamento Usa.

Gli americani rimasero stupefatti: in una città in cui c’era tutto da rifare – dalle fognature ai binari del tram, per non parlare dell’edilizia civile – dare la priorità al teatro dell’opera? La delegazione viennese rientrò mogia ai propri uffici. Con determinazione, decisero che volevano il “loro teatro” grande e bello come era prima della guerra. Misero insieme i fondi che avevano nel bilancio comunale ed in quello federale ed aprirono una sottoscrizione ai cittadini (offrendo anche priorità nell’assegnazione di biglietti alla riapertura). Alla fine anche gli arcigni funzionari dell’ufficio del Piano Marshall a Vienna si commossero e diedero un contributo, come ricordato lo scorso novembre nel Giornale dell’Architettura in occasione della mostra dell’Architekturzentrum sull’architettura viennese nel periodo della “guerra fredda”. In Italia, purtroppo, per svariate determinanti la cultura delle arti sceniche e della musica si è progressivamente sgretolata dalla fine della seconda guerra mondiale.

In terzo luogo, alle prospettive di chiusura, ancorché temporanea, il mondo dello spettacolo e della musica non ha presentato proposte concrete di riassetto, essenziale per un settore fortemente sostenuto dai contribuenti dato che, ad esempio nella lirica, la biglietteria copre mediamente il 25% degli introiti. La posizione sarebbe stata più robusta se espressa nel quadro di misure per contenere i costi dal lato della produzione, e quindi dell’offerta, ed aumentare la fruizione, e quindi i ricavi. Non è tempo di piagnistei! Credo di avere ricordato più volte, pure su questa testata, la frase di Piero Bargellini, agli Uffizi e con il fango che gli arrivava sino alle ginocchia, frase che nel 1966, dopo l’alluvione, diede la svolta alla ricostruzione della Città del Giglio.

Resta il nodo principale ben argomentato da Nicola Cattò nell’editoriale dell’ultimo numero del mensile Rivista Musica: il rischio di avere davanti a noi una generazione perduta di artisti. Ed è un nodo che deve essere affrontato nel breve e nel medio termine sulla base di proposte ben formulate dal settore. Un eventuale Dpcm di novembre avrà una deroga per i teatri, i cinema e le sale da concerto? Francamente, se non ci sarà la dimostrazione di una forte flessione della pandemia, ne dubito. Non solo per le determinanti riassunte in precedenza ma perché un Governo, accusato, a torto od a ragione, di essere stato incerto e titubante e di avere inviato segnali confusi e contraddittori sin dal marzo scorso, sa che se mostra ancora di essere titubante, deve considerarsi al capolinea. Dove scendono tutti. Anche il conducente.

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