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Abbiamo per almeno due decenni osservato nelle città un fenomeno di ristrutturazione del capitalismo che ha trovato la sua forma peculiare nella rigenerazione di quartieri in declino, ex enclave sociali che erano state funzionali a processi economici da tempo tramontati, andate incontro a importanti processi di spopolamento e svalutazione del capitale immobiliare, quasi sempre collocate in aree prossime alle zone centrali più pregiate. Parliamo di processi di recupero di immobili dilapidati e a basso costo, con conseguente sostituzione anche molto rapida di popolazione residente, aumento degli sfratti e impennata dei valori immobiliari, dal correlato oramai ‘classico’ di nuovi caffè, gallerie d’arte e nuovi condomini per uffici o residenze da mercato medio-alto.

Negli Stati Uniti, dove il fenomeno prende comunemente il nome di gentrification, la correlazione tra rigenerazione materiale dei luoghi ed espulsione di popolazioni non più in grado di sostenerne il costo si è manifestata da subito molto netta, come dimostrano esperienze – tra le più note la riqualificazione degli ex quartieri del manifatturiero a Manhattan o le ex aree industriali di Brooklyn – in cui il capitale privato ha agito in maniera decisamente agevole rispetto a una forma molto flessibile di controllo pubblico del regime dei suoli (il rezoning), grazie cioè a un continuo processo di adattamento dello strumento urbanistico alle nuove esigenze del mercato urbano.

In Europa lo stato è stato tendenzialmente più presente nei programmi di rigenerazione urbana, con misure economiche prevalentemente veicolate dall’Unione Europea sul tema dei quartieri in crisi e sui divari tra regioni urbane, ma spesso – come è accaduto nelle grandi capitali – l’immissione di importanti capitali privati, via fondi di investimento o attraverso l’azione di grandi fondazioni, ha finito col condizionare i processi nella direzione di un divario crescente tra rendita fondiaria e capacità media di accesso al mercato immobiliare.

L’incremento del turismo, e dunque di popolazioni caratterizzate da un forte grado di impermanenza, ha poi finito col polarizzare (e appiattire in molti casi) il tema della rigenerazione su una forma di distribuzione ineguale di una ricchezza volatile che è quasi sempre il correlato di una forte desertificazione dei servizi di prossimità (che non servono più!) e di fenomeni striscianti di espulsione. Mettere al centro le persone nei processi di rigenerazione urbana segnala una decisa inversione di tendenza: significa invertire la narrazione che, per avere quartieri più vivibili, sicuri e interessanti sotto il profilo culturale, sia necessario allontanare quelli che non se ne possono permettere i costi.

L’aspirazione politica che sta dietro questa inversione è, detto in poche parole, non lasciare indietro nessuno. Il che – al di là di ambizioni universalistiche da stato regolatore moderno da tempo tramontate – segnala una ripresa del discorso pubblico sul tema della qualità della vita nelle città in una forma non ideologica rispetto alla relazione con la sfera privata, che a sua volta mostra segnali interessanti di riformulazione della propria missione in forza di processi di ristrutturazione sociale ed economica che vedono allargarsi lo spazio della povertà e restringersi la capacità di welfare da parte dello stato.

A Napoli abbiamo affrontato la rigenerazione urbana partendo dai luoghi meno scontati e appetibili, da quelle periferie che, a partire dagli anni ’80, sono state la scena-madre del perenne declino morale e materiale della città, del bassofondo criminale che riemerge a ogni ripresa, della violenza sistemica e della segregazione. E lo abbiamo fatto perché – se la rigenerazione si fa con le persone – allora è necessario abilitare (capacitare, direbbe Amartya Sen) prima di tutto quelle persone che partono in estremo svantaggio, riconoscendone il potenziale trasformativo e la sapienza quotidiana che spesso sfuggono ad architetti, designer e policy maker, che si affidano a modelli che circolano in ambito nazionale e internazionale (utilissimi!) senza fare i conti con le asperità e le domande di contesti specifici. Sui grandi quartieri di edilizia residenziale pubblica costruiti tra la fine degli anni ’70 e il decennio successivo al terremoto del 1980 (le Vele di Scampia, le ‘stecche’ di Taverna del Ferro a San Giovanni, i prefabbricati di Ponticelli) il Comune ha ottenuto consistenti finanziamenti del PNRR, cui si sono aggiunte risorse da altre fonti di finanziamento per raggiungere obiettivi di rigenerazione sociale e spaziale in linea con i principi prima richiamati.

In questi luoghi non abbiamo mai immaginato che la pur indispensabile riqualificazione fisica di ambienti di vita degradati fosse sufficiente per riportare i cosiddetti marginali alla legalità e a standard decenti di vita. Abbiamo invece intrapreso una dialettica non semplice con le comunità che abitano in questi luoghi provando sempre ad estenderla a quel settore della sfera privata (l’impresa sociale, i gruppi organizzati anche di natura informale, il terzo settore) che si mostra meglio attrezzato a realizzare forme di investimento con ricadute significative sul capitale sociale e sulla qualità della vita in generale.

Con lo stesso spirito, ci siamo concentrati su grandi proprietà pubbliche in centro storico, nel cuore del sito Unesco, per innescare un processo di valorizzazione del patrimonio monumentale che trovasse nel processo di co-progettazione con le diverse comunità che abitano il centro storico di Napoli la forma specifica per ripensarne usi e funzioni. Su questa strada, il patrimonio storico diventa spazio conteso tra storie pubbliche diverse, ma anche spazio aperto a nuove opportunità di accoglienza, riconoscimento e inclusione sociale, con un’attenzione programmatica a soggetti e pratiche di economia civile che siano in grado di garantire nel tempo una sostenibilità economico-gestionale su cui lo stato – nel caso del programma Unesco si tratta di fondi europei – interviene con risorse limitate e a tempo.

La rigenerazione del patrimonio dell’area Unesco diventa, in questo senso, un’opportunità di capacitazione rivolta a soggetti esposti a processi di marginalizzazione dal mercato, come gli studenti, i migranti, le famiglie mono-genitoriali e quelle a basso reddito. Ma è anche un modo utile per rilanciare la conversazione sullo spazio pubblico, inteso non tanto come ambiente fisico o regime proprietario, ma soprattutto come processo di produzione di legami e relazioni, spazio garantito all’espressione di conflitti e divergenze, luogo di confronto e produzione di opportunità inedite per chi lo abita.

Che questa politica di rigenerazione abbia solide prospettive di riuscita lo diranno i risultati dei prossimi anni, sicuramente indica una inversione consistente di una tendenza che sempre meno, nel corso del tempo, ha tenuto conto delle persone, delle loro differenze, dei divari che le allontanano dai luoghi dove vorrebbero scegliere di vivere.

La vera rigenerazione si fa con le persone. L'intervento di Laura Lieto

Di Laura Lieto

Mettere al centro le persone nei processi di rigenerazione urbana segnala una decisa inversione di tendenza: significa ribaltare la narrazione che, per avere quartieri più vivibili, sicuri e interessanti sotto il profilo culturale, sia necessario allontanare quelli che non se ne possono permettere i costi. L’intervento di Laura Lieto, vicesindaco di Napoli e Assessore all’Urbanistica

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