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Quando leggo certi commentatori convinti che la polarizzazione in politica, lascito della stagione populista, stia per finire, devo trattenere a stento le risate. Mi chiedo se per caso escano mai di casa, dalle mura spagnole milanesi o da quelle Aureliane romane, e se incontrino persone diverse dal solito giro universitario-giornalistico-bella gente (e a Roma anche perdigiorno vari e gente di spettacolo).

Si accorgerebbero che l’Italia è in macerie e che, altro che fine della polarizzazione: è la stagione della rabbia, di cui tratta in un testo magistrale, Ira e tempo, il più grande filosofo tedesco vivente, Peter Sloterdiijk. La Angrynomics, l’economia della rabbia, sarà quella dei prossimi anni, come spiegano nel loro omonimo e recente libro gli economisti Eric Lonergan e Marc Blyth.

Ma attenzione, la rabbia non prenderà solo e magari neanche necessariamente forma di rivendicazione economica. Essa si adatterà ai modi della nuova politica, che sono quelli delle “guerre culturali”.

Culture war: the struggle to define America è il titolo di un volume del 1991 del sociologo statunitense James Davison Hunter. Secondo lo studioso, dopo il sessantotto e la rivoluzione post materialista degli anni Settanta e Ottanta, i grandi conflitti politici si sarebbe rivolti non tanto verso le questioni economiche ma verso quelle identitarie: aborto, diritti delle minoranze, femminismo (gender e bio politica allora non stavano ancora in secondo piano).

La diagnosi dello studioso, a quasi trent’anni dalla pubblicazione del suo libro, sembra confermata; tutte le presidenze a partire dalla Clinton si sono giocate su temi prevalentemente identitari, in cui le questioni economiche rientravano certo: ma innestate nel grande cleavage tra chi difende una identità americana fondata su una sfera di valori della tradizione (grosso modo, i repubblicani) e chi invece intende questa identità come composizione di micro identità, legate tra loro solo dalla retorica dei diritti, priva di un common ground, men che che meno nazionale (grosso modo, i democratici).

Prima la grande, rivoluzionaria e anticipatrice battaglia di Newt Gingrich contro Clinton (di cui si veda ora il libro di Julian Zelizer, Burning down the House. Newt Gingrich, the Fall of a Speaker, and the Rise of the New Republican Party) poi lo straordinario movimento del Tea Party, a ben vedere erano assai meno focalizzati su questioni economiche di quanto sembrasse.

Se lo slogan degli anni di Clinton era “it’s the economy, stupid” quello di questi anni è piuttosto “it’s the identity, darling”.

Come era abbastanza prevedibile, le guerre culturali sono arrivate da tempo anche in Europa e ora in Italia. La pandemia, come scrivevamo Corrado Ocone e il sottoscritto in un Instant book uscito proprio all’inizio del lockdown (Coronavirus : fine della globalizzazione?), ha aperto uno scenario in cui si radicalizzano due blocchi; uno conservatore, che vede nella crisi del Covid la conferma di una lettura del presente dove identità, tradizione, nazione e religione sono i capisaldi, e invece una globalista progressista, che intende sfruttare la crisi per imprimere un’accelerazione della storia nel senso del “progresso”, come lo intendono loro, cioè trionfo dell’individualismo e ripiegamento della grande comunità.

Questi due blocchi si stanno scontrando nel piazze da settimane negli Stati Uniti e saranno destinati a farlo nei prossimi mesi e anni anche in Italia. Ne abbiamo avuto un’avvisaglia persino nelle elezioni regionali: quando il segretario del Pd, Zingaretti, parla della possibilità di semplice alternanza democratica in una regione, la Toscana, come di un Armageddon a cui chiamare a raccolta le forze del Bene contro quelle del Male, siamo ben oltre la solita propaganda di scuola comunista e anti berlusconiana.

L’anti berlusconismo storico infatti, nonostante insistesse sul fatto che i berlusconiani e i suoi elettori fossero un‘altra umanità, non si poteva considerare un soggetto politico intento a guerre culturali e identitarie. Nonostante tutto, la critica nei confronti del Cavaliere era politica.

Oggi invece le contrapposizioni passano attraverso lo scontro di identità: e i temi che nella prima repubblica, ma in parte anche nella Seconda, si potevano definire come propri della “sfera privata” e di coscienza, sono ora politici per eccellenza; dalla pillola abortiva all’utero in affitto all’adozione per le coppie gay, nessuno ora potrebbe dire che si tratta di posizioni da risolvere nell’intimo della propria coscienza. Sono questioni che come tali richiedono alle forze politiche di schierarsi, pro o contro. Cioè di partecipare e di contribuire alle guerre culturali, che nascono all’interno del paese.

Con buona pace dei commentatori più o meno interessati o degli attori politici impegnati addirittura in una ricerca di “nuovo centrismo”, la realtà, anche in Italia, va esattamente nella direzione opposta.

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