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Poco meno di un’ora di volo separa Tel Aviv da Neom, la smart city saudita sulle sponde del Mar Rosso. Il primo ad accorgersi di movimenti inusuali, di domenica, su quella rotta nei cieli è stato Avi Scharf, giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, grande esperto di aviazione: su Twitter ha segnalato il viaggio del business jet Gulfstream IV, codice T7-CPX (ex 4X-CPX), quello utilizzato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Il tempismo ha suscitato molta curiosità: a Neom, infatti, proprio in quelle ore si stavano incontrando Mike Pompeo, segretario di Stato statunitense, e Mohammad Bin Salman, il principe ereditario saudita: “Gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno fatto molta strada da quando il presidente Franklin Delano Roosevelt e il re Abdul Aziz Al Saud gettarono per la prima volta le basi dei nostri legami 75 anni fa”, ha twittato il capo della diplomazia americana.

I media israeliani hanno poi rivelato che a bordo di quel jet c’era Netanyahu. Ma non era solo. Era accompagnato da Yossi Cohen, il capo del Mossad, fedelissimo del premier e uomo al centro della diplomazia parallela di Gerusalemme — quella che, in particolare nelle settimane iniziali della pandemia, aveva condotto con discrezione gli affari con gli Emirati Arabi Uniti e altri Paesi arabi (con cui Israele non aveva ancora normalizzato rapporti diplomatici) al fine di garantire l’approvvigionamento dei beni necessari.

Non ci sono conferme (così come, d’altronde, mai ci sono state per gli incontri segreti di questi anni tra Israele e Arabia Saudita). Faisal Bin Fahran, ministro degli Esteri saudita, ha negato via Twitter l’incontro. Ma il Wall Street Journal e i media israeliani sono certi che sia avvenuto: sarebbe il primo, storico incontro tra il premier israeliano e il principe ereditario saudita. Un indizio è arrivato anche da Topaz Luk, social media adviser di Netanyahu, in quelle ore ha twittato: “Mentre Benny Gantz (l’alleato di governo del premier con cui è in corso un braccio di ferro che potrebbe sfociare addirittura in una crisi di governo, ndr) si occupa di politica, il premier sta facendo la pace”.

In agenda, la normalizzazione dei rapporti diplomatici. Il principe saudita rappresenta, infatti, quella nuova generazione di leader arabi che (a differenza per esempio del padre, re Salman) sono pronti a tendere la mano a Israele — una mossa destinata a riaccendere le rimostranze palestinesi che parlano di ennesimo “tradimento” da parte degli Stati arabi. Ma molti osservatori sono convinti che sia ancora troppo presto per vedere l’Arabia Saudita riconoscere Israele. Prima potrebbe toccare ad altri Paesi, sempre (come accaduto per Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan) dopo previa luce verde di Riad.

E infatti i tre potrebbero aver parlato di Pakistan: soltanto la settimana scorsa Haaretz spiegava che Riad sta facendo pressioni su Islamabad affinché si aggiunga agli Accordi di Abramo, intese a cui ha lavorato duramente l’amministrazione di Donald Trump (di concerto con il dipartimento di Stato e l’intelligence) con l’obiettivo di ridurre la presenza militare a stelle e strisce aumentando la condivisione d’intelligence nella regione e sdoganando Israele.

Ma, come scrive Axios.com, il piatto forte dell’incontro sarebbe stato l’Iran, viste le preoccupazioni israeliane e saudite verso i sicuri sforzi della prossima amministrazione statunitense guidata da Joe Biden per riprendere il dialogo con Teheran e tornare ai tavoli negoziali sul nucleare. Un altro indizio: poche ore prima di partire per Neom, Netanyahu aveva tenuto un discorso alla cerimonia di Stato per Paula e David Ben-Gurion sottolineando che “grazie alla nostra ferma posizione contro il nucleare iraniano e alla nostra opposizione all’accordo nucleare con l’Iran, molti Paesi arabi hanno cambiato radicalmente il loro approccio verso Israele”.

Come ha spiegato alcuni giorni fa a Formiche.net Aaron David Miller, ex funzionario del dipartimento di Stato oggi senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace, la priorità dell’amministrazione Biden in Medioriente sarà l’Iran: “Ed è chiara la ragione”, spiegava: “a differenza della questione palestinese, quella iraniana rischia di sfociare in una guerra tra l’Iran e Israele ma anche tra l’Iran e gli Stati Uniti. E sarebbe un grosso problema per un’amministrazione la cui priorità è la ripresa economica”.

Mancano però ancora (poche) settimane prima del giuramento di Biden. E, come sulla Cina, anche sull’Iran Trump sta cercando di ingabbiare il successore lasciando in eredità dure misure economiche che potrebbero scombussolare i piani del futuro presidente.

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