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Martedì il ministro degli Esteri cinese Wang Yi sarà a Roma per colloqui con il governo italiano. Non è ancora chiaro se incontrerà il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ma in ogni caso il documento congiunto che dovrebbe firmare alla Farnesina con il collega Luigi Di Maio sarà un testo di rilievo anche in relazione al ruolo che l’Italia intende svolgere in questo delicato momento all’interno dell’Unione europea e della Nato.

Non ci si può aspettare dal titolare della Farnesina un dissenso eclatante sulla repressione dei ragazzi di Hong Kong e delle donne uigure, argomenti fondamentali, ma da affrontare in sede di Unione europea con una politica esterna attenta ai diritti umani come più volte ripetuto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dall’Alto rappresentante Josep Borrell e auspicato dalle viceministre Emanuela Del Re e Marina Sereni.

Telecomunicazioni, reti digitali e AI, porti (Taranto, Trieste e Genova), reti energetiche e partecipazione e forniture cinesi in aziende strategiche sono, invece, temi su cui è lecito aspettarsi dal vertice una parola chiara.

I dossier cooperativi con la Cina a cui ha attivamente lavorato il ministro Stefano Patuanelli (Sviluppo economico) sono attualmente al vaglio degli organismi preposti alla sicurezza nazionale. Nei prossimi giorni vedremo con quali esiti operativi.

In ogni caso per la Farnesina non sarà facile conciliare l’attuazione pratica della via della Seta con le nostre alleanze e con scelte che non contraddicano troppo i valori fondanti della democrazia italiana.

Per gli sherpa del ministero degli Esteri cinese il nodo più difficile da decifrare sono i provvedimenti tecnico-giuridici da cui è davvero difficile comprendere l’esatta posizione del governo italiano rispetto alle imprese digitali cinesi che operano in Italia in ambito telecomunicazioni.

La loro presenza in Italia è radicata da molti anni sia come gestori della telefonia che come fornitori di device e tecnologie digitali. Oggi WindTre/Hutchinson rappresenta un operatore importante così come lo sono i fornitori Huwaei per Tim, Vodafone e Fastweb, Huwaei e Zte per Open Fiber; tutte le imprese cinesi hanno partecipato nello scorso biennio alle diffuse sperimentazioni 5G nel territorio nazionale oltre ad aver acquisito posizioni di mercato notevoli già nel 4G al tempo dei precedenti governi (e nonostante l’intelligence italiana avesse già diramato alert puntuali).

È sbagliato pensare che la massiccia presenza tecnologica del Dragone nasca con i governi Conte I e II. Nel mercato italiano una quota commerciale di derivazione cinese (e assai significativa) si è consolidata da tempo e questo spiega la ritrosia delle aziende utilizzatrici a farne a meno.

Ma cosa è successo nel frattempo? Negli ultimi quattro anni la Cina ha adottato quattro nuove leggi (sicurezza nazionale, crittografia, cybersecurity e controspionaggio) che obbligano le  imprese cinesi che operano all’estero in campo tecnologico a fornire alle autorità governative di Pechino il patrimonio informativo di cui dispongono nei propri data center.

Queste normative illiberali — insieme ad una politica commerciale molto aggressiva, basata su copiosi aiuti di Stato — hanno in un primo momento allarmato solo gli Stati Uniti, ma gradualmente la preoccupazione si è estesa e si sta estendendo ad altri paesi: Giappone, India, Australia, Canada, Regno Unito e ora anche a Germania, Israele e altri ancora.

In questi mesi si stanno anche definendo progetti alternativi di carattere pluralistico (Ran-0, clean network, ecc.) per una gestione più aperta del 5G in Europa, in Asia  e in America.

In questo contesto molto dinamico, come si sta muovendo l’Italia?

Mentre sui porti siamo di fronte a si e no molto precisi (Taranto è o non è compatibile con la base navale militare, ecc.) nel campo digitale e delle telecomunicazioni  la somma delle deliberazioni amministrative sinora adottate appare agli stessi cinesi molto fluida se non indecifrabile.

Da quanto si evince, sinora dai Dcpm approvati da Conte e Patuanelli le aziende del 5G (i gestori e i loro fornitori) potrebbero comunicare ad entità straniere informazioni relative alle loro notifiche Governo italiano solo dopo il parere positivo del comitato per il monitoraggio del Golden power, una struttura amministrativa di Palazzo Chigi.

Ma — una volta che le imprese cinesi vengono autorizzate con questo tipo di prescrizioni come nel caso Tim-Huwaei del 7 agosto — si pongono due interrogativi che i giuristi di Palazzo Chigi hanno lasciato — a mio avviso — in sospeso per evidenti esigenze di successive mediazione politiche.

Di quali informazioni si tratta? Soltanto quelle necessarie a ottenere la  notifica o a tutte le informazioni che si sono  accumulate e si accumuleranno nel tempo nei data center aziendali? La differenza è determinante e la formula dovrebbe essere corretta per dare piena certezza giuridica alla seconda opzione.

Il secondo interrogativo strettamente connesso al primo — prima che di natura giuridica — è di buon senso.

Come si può immaginare che i grandi colossi statali e privati come Hutchinson, Zte, Huawei, eccetera che forniscono molteplici componenti si rivolgano ai gestori (nel caso del 7 agosto è Tim il soggetto della notifica) — per l’autorizzazione di un comitato tecnico-amministrativo di Palazzo Chigi per adempiere agli obblighi informativi derivanti dalle leggi illiberali che Pechino ha approvato in questi anni.

È difficile cogliere sino in fondo la ratio di questo punto, ma si può immaginare che il rischio di revoca e relative sanzioni possa scoraggiare i gestori ad utilizzare fornitori obbligati a fornire informazioni a entità governative estere come nel caso delle imprese cinesi.

Se questa interpretazione è corretta la responsabilità si sposta, sulle spalle dei gestori: Tim, Vodafone, Fastweb, eccetera. Sarebbe loro interesse non rischiare e dunque rinunciare a utilizzare fornitori cinesi?

Ma cosa accade ad un gestore Wind3/Hutchinson? L’azienda è di Hong Kong, ma da qualche mese la legislazione sulla sicurezza nazionale è stata estesa anche all’ex colonia britannica per reprimere le proteste dei giovani.

La mia opinione è che se questa è la direzione di marcia sarebbe meglio essere più trasparenti. Tutti i cittadini si rendono conto che l’obbligo di fornire tutti i propri dati, compresi quelli sanitari — a un governo straniero è inaccettabile sotto ogni profilo dello Stato di diritto. Che senso avrebbero tanto per fare un esempio le procedure di estradizione e di cooperazione giudiziaria?

Il Dis e gli uffici della presidenza preposti al Golden power hanno fatto un ottimo lavoro istruttorio, ma su questo punto la scelta è politica e non è giusto che — come ho ricordato in un recente articolo su Formiche.net — i partiti di governo e i ministri scarichino sugli apparati le loro incoerenze e contraddizioni.

Rumors che non sono in grado di verificare raccontano di difficoltà e preoccupazioni della ambasciata cinese a dare una interpretazione autentica ai provvedimenti amministrativi recentemente adottati dal presidente Conte.

Dall’altra parte, sul versante occidentale, ci sarebbe irritazione per le ambiguità giuridiche volute dal governo in questo settore con l’attribuzione di tutta le responsabilità sulle spalle dei gestori.

Il Parlamento e i cittadini italiani hanno di sapere se e come il Governo Italiano intende contrastare il totalitarismo digitale della Cina o se, viceversa, si muove in direzione opposta

Mi auguro che martedì prossimo, 25 agosto, a Luigi Di Maio non venga in mente l’idea di interpretare il ruolo di Ponzio Pilato. L’ultima parola su un tema di eccezionale rilievo politico e giuridico non spetta al titolare della Farnesina, ma al Consiglio dei ministri e al Parlamento.

Tuttavia, ribadire con garbo e decisione il valore universale delle libertà e della democrazia nella società digitale in cui siamo immersi sarebbe un messaggio destinato a lasciare il segno in un mondo in cui la tecnologia favorisce la sorveglianza di massa e rafforza i regimi illiberali.

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