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A metà febbraio del 2017, poche settimane dopo l’inaugurazione di Donald Trump quale quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, mi fu offerta l’opportunità di partecipare a un convegno dal titolo “Chi è Donald Trump? Cosa cambia per l’Italia e per l’Europa”, organizzato al Centro Studi Americani dall’associazione Amerigo. Come sempre, mi preparai un discorso di una decina di minuti, per l’occasione focalizzato su quello che credevo sarebbe stato l’impatto della nuova amministrazione sulle relazioni transatlantiche. Invece, quando venne il momento di prendere la parola, misi da parte quanto preparato per improvvisare un intervento nuovo. Questo perché, tra i relatori che mi avevano preceduto, forte sembrava il consenso che Trump fosse il nuovo Ronald Reagan e che la sua amministrazione avrebbe ricalcato i temi di politica interna ed estera di quella dell’ex attore ed ex governatore della California.

Trump non mi ricordava affatto Reagan, mi ricordava Jimmy Carter, come poi andai a spiegare a un pubblico non poco sorpreso dal parallelo che stavo elaborando. Cosa mai potevano avere in comune questi due presidenti, uno repubblicano e l’altro democratico, espressione di realtà geografiche e sociali quasi antitetiche e dalle vicende personali estremamente diverse?

La risposta è che tutti e due si sono rivolti al pubblico statunitense come outsider, come lontani ed estranei a quel mondo della politica washingtoniana che Carter voleva ripulire e Trump prosciugare. Per ottenere la nomina del proprio partito, tutti e due si sono ritrovati a dover sconfiggere un esponente di una delle famiglie politicamente più importanti dell’intera nazione: Ted Kennedy nel caso di Carter, Jeb Bush nel caso di Trump. Per vincere la Casa Bianca, tutti e due si sono ritrovati a doversi confrontare con un rivale dalla vita politica tanto lunga quanto estranea a qualsiasi vero grande successo elettorale: Gerald Ford nel caso di Carter, Hillary Clinton nel caso di Trump. Tutti e due sono stati accusati di essere ignoranti, razzisti, retrogradi e ultraconservatori. Durante la campagna elettorale, tanto l’uno quanto l’altro si sono ripromessi d’improntare le rispettive amministrazioni a un livello minimo di segretezza, di andare incontro ai desideri di un Paese intenzionato a ripiegare su sé stesso dopo anni d’interventi militari, di riformare un sistema fiscale definito da Carter come “a disgrace to the human race” e da Trump come un meccanismo che ha creato “a silent nation of jobless Americans”. Tutti e due hanno conquistato la Casa Bianca perdendo in California, ma vincendo un’interessante coalizione di Stati agricoli ex-confederati e di potenze industriali quali la Pennsylvania.

Quattro anni dopo, sono sempre più convinto che il parallelo da me presentato quella sera fosse corretto. Come Carter, Trump ha dimostrato enormi difficoltà nel suo rapporto con il Congresso, ha combattuto un’intera serie di battaglie contro ogni burocrazia federale, ha ridotto il volume delle entrate fiscali, ha deregolato molti settori industriali, ha potenziato ogni capacità militare e ha optato per una politica mediorientale costruita sul tentativo di risolvere i problemi esistenti tra Israele e i principali Paesi arabi, invece che tra Israele e i palestinesi. Sempre come Carter, Trump nell’ultimo anno del suo mandato si è trovato poi a fronteggiare una forte recessione economica, una crisi internazionale apparentemente priva di possibili soluzioni e, inoltre, l’aperta ostilità di larghi settori del proprio universo politico.

A breve, è questione ormai di poche ore, sapremo finalmente se a questo già lungo elenco di similitudini se ne aggiungerà un’altra, quella di passare alla storia come one-term-president. Nel caso, mi chiedo se qualcuno finirà con il sostenere che Joe Biden sarà il nuovo Reagan. Di certo non sarò io.

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