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Padre Giulio Albanese, missionario comboniano in tanti Paesi africani, dove è stato anche sequestrato dai terroristi del Lord Resistance Army, non conosce la storia del disastro nichilista di Brahim Aouissaoui, il  jihadista che ha voluto decapitare e uccidere in chiesa: “E ritengo grave la falla che gli ha consentito di arrivare in Francia dal centro di accoglienza barese dove era stato identificato”.

Ma nella fermezza della sua valutazione dell’accaduto emerge anche una considerazione basata sulla dolorosa storia degli attentati che i francesi hanno già dovuto subire, soffrire, patire: gli altri attentatori non erano arrivati con i barconi, molti di loro provenivano dalle seconde o terze generazioni di immigrati. Questa gravissima ferita va dunque capita nel suo insieme oltre che nella sua gravità. E l’insieme ci parla di integrazione come di un rapporto di lunga data, storico e culturale, tra Francia e parti ampie del variegato e ampio mondo africano. Un rapporto complesso che porta a galla numerose criticità.

Che cosa non va tra Francia ed ex-colonie? Che cosa crea un rapporto di amore e odio con Parigi in segmenti molto più ampi di quello malato, il segmento indottrinato dai cattivi maestri dell’odio? Entrare in questo discorso non può servire a giustificare, ma a cogliere un humus di malessere nel quale i cattivi maestri possono trovare terreno fertile. Sono i pozzi d’odio che vanno visti per riuscire a prosciugarli. Se le religioni possono essere deformate e diventare veicolo d’odio e sopraffazione è la storia dei loro figli veri o presunti che deve guidarci, non il giudizio o la presunzione di superiorità.

Nella storia politica africana ci sono fallimenti e tradimenti che non vanno rimossi, trasformazioni di movimenti di liberazione in cricche oppressive, liberticide e cleptocratiche, che non possono non essere considerate. Ma ci sono anche complicità, connivenze, interessi a dir poco mal gestiti. La Ong Human Rights Watch, ricorda padre Albanese, ha richiesto alla Francia di interrompere le esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita e l’Egitto, dopo che un report ha svelato che nel 2019 Parigi ha inviato 1.6 miliardi di dollari di armi a Riad e 1.1 miliardi al Cairo. Lo ha rivelato l’11 giugno di quest’anno Middle East Eye, che ha altresì specificato che in virtù delle sue esportazioni verso tali Paesi, la Francia è stata accusata da Human Rights Watch di alimentare “le atrocità commesse contro i civili”.

I contorcimenti tunisini nei quali deve essere cresciuto il cieco nichilismo di Brahim Aouissaoui originano nel fallimento del regime di Ben Ali, che tanti indottrinatori avranno presentato ai giovani tunisini come “un lacché dell’Occidente, dei francesi”. Ma la Francia è la patria di “libertà, eguaglianza, fraternità”, non è un Paese qualsiasi, è il riferimento spirituale di ogni anelito e poi il bersaglio di pezzi falliti e incattiviti, che attraverso percorsi diversi sono sprofondati in un nichilismo islamico, la migliore definizione che padre Albanese trovi per un fenomeno che unisce la radicalizzazione dell’Islam dei “cattivi maestri eretici” e l’islamizzazione del radicalismo della “manodopera” che odia e basta, come tutti i nichilismi.

Il loro nichilismo è pronto a raccogliere qualsiasi bandiera che gli consenta di odiare. I due fenomeni nella riflessione di padre Albanese vanno visti nelle storture di sistemi vicini, uniti dagli interessi energetici e che se nel mondo islamico hanno prodotto la scomparsa della politica nel nome della presunta “guerra al terrorismo di altri” da noi non hanno cancellato il vecchio criterio del “predicare bene e razzolare male”.

Come avranno, o avrebbero comunque potuto usare quelle armi Egitto e Arabia Saudita? Il suo ragionamento non indica un colpevole, ricorda però alcuni rapporti perversi di certi regimi con ideologie del disprezzo, ma cerca di ricreare un filo comune, che ci salvi dalle opposte semplificazioni che si sostengono a vicenda: la Francia che per Erdogan e Khamanei incarna l’Occidente cristiano dei nuovi crociati, i terroristi che agli occhi di alcuni incarnano tutto l’Oriente islamico sempre conquistatore. In questo modo una semplificazione non potrà aiutare l’altra?

Riversare tutto questo sulla scelta disumana, tremenda e feroce di un giovane tunisino per coinvolgervi tanti in fuga proprio dagli effetti perversi di queste dinamiche predatrici non gli appare opportuno, sebbene ribadisca che le falle non vanno giustificate, ma tappate. Così la storia sulla quale ritiene di richiamare la nostra attenzione è quella di Abdelmalek Droukdel, considerato il leader di Al Qaeda nel Maghreb (Al-Qaida au Maghreb islamique), la cui eliminazione è stata annunciata il 5 giugno scorso dal ministero della Difesa francese, “precisando che il leader islamista ha perso la vita nel corso di un’operazione nel Nord del Mali, vicino alla frontiera con l’Algeria, condotta con il supporto di non meglio precisati elementi delle forze armate locali.  Indubbiamente, l’uccisione di Droukdel rappresenta un significativo successo militare e politico per la Francia, impegnata dal 2013 nella tormentata regione maliana dell’Azawad, prima con l’operazione Serval e poi successivamente, fino ad oggi, con l’operazione anti-terrorismo Barkhane finalizzata a mettere in sicurezza tutti i Paesi del G5 Sahel, vale a dire Mali, Niger, Burkina Faso e Ciad (Force Conjointe du G5 Sahel). A questa iniziativa si affianca la task force Takuba (dal nome della tipica scimitarra tuareg) fortemente voluta dal presidente francese Emmanuel Macron con il coinvolgimento di numerosi Paesi europei”.

La guerra al terrorismo è un titolo, ma sotto ci sono vite e distruzioni che poco conosciamo? A questa domanda padre Albanese mi invia per posta elettronica un estratto di quanto ha scritto poche settimane fa su l’Osservatore Romano: “In un contesto di progressivo deterioramento della situazione di sicurezza e di profonda destabilizzazione regionale, alimentata dall’attivismo di gruppi armati di ispirazione jihadista, e segnato da crescenti tensioni interetniche e dal radicamento di network criminali di traffico illecito, lo sforzo militare francese è ben esemplificato dai cospicui numeri delle forze dispiegate, ad oggi stimabili in oltre 5 mila uomini e circa 950 tra mezzi terrestri e aerei. Sono nate col tempo nuove organizzazioni terroristiche fondate dai leader locali, come il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (Mujao) o il gruppo al-Murabitoun. Un jihadismo il loro imperniato sul controllo dei traffici illeciti, sulla tassazione delle attività economiche nei territori sotto il loro controllo e sul saccheggio indiscriminato. Nel frattempo si è manifestata palesemente, a partire dal 2014, la contaminazione dell’ideologia propagandata dallo Stato islamico del defunto Abu Bakr al-Baghdadi che ha, per così dire, acceso i riflettori sulla presenza dei suoi seguaci nel Sahel. Incitando i combattenti jihadisti in Burkina Faso e Mali ad intensificare gli attacchi contro i militari francesi e i loro alleati, al-Baghdadi confermò esplicitamente, lo scorso anno, pochi mesi prima della sua morte, il giuramento di fedeltà allo Stato islamico da parte di Adnan Abu al-Walid al-Sahrawi, militante islamista sahrawi, ex membro del Mujao ed ex sodale di Mokhtar Belmokhtar, leader del gruppo al-Murabitoun — meglio conosciuto negli ambienti eversivi come Mr. Marlboro in ragione dei radicati interessi nelle reti dei traffici illeciti trans-saheliani. Questo indirizzo ha però determinato due effetti. Anzitutto ha causato una frattura nella galassia jihadista, in quanto, ad esempio, già nel 2015, Belmokhtar riaffermò l’affiliazione ad Al Qaeda, diventando il leader di al-Qaeda en Afrique de l’Ouest e ricusando così il franchise strategico con Is in Africa occidentale. Al contempo però la diffusione di gruppi estremisti ha gradualmente spostato l’epicentro delle attività jihadiste dal deserto sahariano all’interno della fascia saheliana, facendo dell’islamismo radicale l’interprete di alcune minoranze etniche discriminate, come i tuareg e i fulani, con l’effetto immediato di far perdere centralità all’elemento arabo e algerino, un tempo dominante con il modus operandi e la visione di Droukdel”.

Leggo e capisco perché aggiunga che è urgente contrastare l’evidente strumentalizzazione ideologica dei gruppi islamisti con una nuova forma di governo inclusivo delle risorse soprattutto energetiche, dicendo: “È difficile dubitare che gli interessi stranieri, spesso contrapposti e predatori, nello sfruttamento delle commodity africane, acuiscono la destabilizzazione, fornendo il pretesto alla galassia jihadista di affermare un disordine destinato ad accrescere e minacciare la stabilità della regione saheliana, dell’Africa in generale e della stessa Europa”.

La Francia non è solo “la Francia”. La Francia è molto di più e lasciare soli i francesi in questa tormenta non tiene conto di cosa significhi l’amore e l’odio per Parigi in tanti ambienti nordafricani e non solo, e cosa Parigi rappresenti in tanti Paesi del nostro bacino. I toni utilizzati da Erdogan contro Parigi sono pericolosi anche per questo, non solo perché mirano a coprire sotto il mantello dell’agognato scontro di civiltà i fallimenti astronomici della sua politica “del colabrodo economico” più che del neo-ottomanesimo.

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Lasciare soli i francesi in questa tormenta non tiene conto di cosa significhi l’amore e l’odio per Parigi in molti ambienti nordafricani e non solo, e cosa Parigi rappresenti in tanti Paesi del nostro bacino. Conversazione con padre Giulio Albanese, missionario comboniano in Africa, dove è stato sequestrato dai terroristi del Lord Resistance Army

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