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“La democrazia rischia l’infarto. Ha bisogno di un pacemaker”. Enrico Borghi ci scherza su, “sono un sopravvissuto”. Il virus è arrivato, anzi è tornato nei palazzi della politica. Alla Camera il focolaio non si ferma. “Non si dovrebbe fermare neanche il Parlamento, che è il cuore pulsante del Paese”, dice lui, deputato del Pd e prima fila dell’area riformista del partito, componente del Copasir, “ma il voto a distanza non può essere un tabù”. L’incertezza che regna a Montecitorio è la stessa che attanaglia il governo di fronte alla nuova ondata pandemica. Dopo l’affondo di Dario Franceschini, il pressing del Pd su Palazzo Chigi inizia a farsi sentire. E non si limiterà alla gestione del virus, “vogliamo accelerare l’agenda riformista”.

Borghi, cosa chiedete al premier?

Di affrontare di petto i problemi. Non li risolviamo fischiettando o mettendo la testa sotto la sabbia. Se vogliamo evitare un lockdown dobbiamo mettere in campo misure funzionali, senza drammatizzazioni. I dati dicono che i tamponi sono molti di più rispetto a marzo e l’impatto sulle terapie intensive è decisamente minore. Abbiamo due settimane per stringere.

Governo e regioni continuano a litigare.

Un braccio di ferro inutile. La nostra Costituzione parla di leale collaborazione. Le elezioni sono finite, sgombriamo il campo dai macismi.

Si riferisce a Vincenzo De Luca?

La situazione in Campania è delicatissima. Apprezzo che abbia fatto un parziale passo indietro sulla chiusura delle scuole. I dati confermano che la scuola non è un luogo di contagio, ma di prevenzione.

Siete tornati a chiedere il Mes. Perché?

Perché non ci sono più scuse. Sono soldi già in banca, cruciali per costruire quella rete di medicina territoriale che a marzo tutti volevano, nessuno escluso. Abbiamo chiesto all’Europa di mettere a disposizione risorse. Ora ci sono 36 miliardi di euro per l’Italia, senza condizionalità, a tassi migliori rispetto a quelli di mercato.

Come risolvete l’impasse con i Cinque Stelle?

Semplice. Votiamo tutti insieme la risoluzione sulla legge di delegazione europea che chiede al governo un piano per la modernizzazione della rete sanitaria regionale. Parliamo di fatti concreti, ospedali, tamponi, liste d’attesa, non di ideologia. E qui faccio un appello al ministro Speranza: bisogna fare in fretta, quel piano serve ora.

C’è da fidarsi a delegare Angela Merkel per negoziare il Recovery Fund?

Mettiamola così. È più affidabile Merkel di Viktor Orban.

Dicono che ora volete dettare voi l’agenda. È vero?

Le elezioni regionali e municipali hanno confermato la serietà del Pd. Dobbiamo metterla in campo facendoci sentire di più sulle riforme. Siamo riformisti, prima ancora che governisti.

Coi Cinque Stelle immaginate un’alleanza politica più strutturata?

Questo dipende da loro. Si prospetta un sistema bipolare. Da una parte noi, dall’altra la destra sovranista e trumpiana. Devono scegliere dove stare, cosa vogliono fare da grandi. Noi siamo pronti ad avviare un percorso di collaborazione, senza che sfoci in costruzioni di nuovi, fantomatici partiti.

Renzi e Italia Viva dicono che senza di loro non c’è maggioranza.

La politica dei ricatti non è apprezzata dagli elettori, come dimostrano le recenti elezioni regionali. Io penso che sia inaccettabile sfilarsi dagli accordi quando sono stati sottoscritti. Nella critica di Iv colgo però un aspetto, la necessità di un maggiore coinvolgimento del Parlamento. Lo abbiamo detto io e Delrio in questi giorni, forse il premier ci avrebbe potuto ascoltare di più.

Chiudiamo con il capitolo Roma. A lei piace l’idea Carlo Calenda?

Io sono autonomista nel dna, a Roma devono decidere i romani.

Si parla anche di un ipotesi Zingaretti.

Questo dovete chiederlo a lui.

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