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Mai come in questo momento da più parti si sente parlare propriamente o impropriamente di una “rivoluzione liberale” attesa, ricercata, da pianificare, quasi da afferrare a tutti i costi, ma le rivoluzioni che partono da un assunto ideologico/valoriale (come in questo caso) non si inventano, si costruiscono su solide basi politiche che poggiano su una storia precisa e definiscono i perimetri di un’identità cristallina.

Il dramma che si consuma in Italia negli ultimi anni è decisamente l’assenza di una vera cultura liberale che possa inserirsi nel dibattito politico con prepotente fermezza, effetto anche dell’esperienza montiana che ha tradotto un’equazione semplice in senso anti-liberale, quella secondo cui il taglio della spesa pubblica corrisponde all’austerity, allo ‘sfregio’, mi si passi il termine, della classe media.

È esattemente l’opposto. Il taglio della spesa pubblica cattiva deve corrispondere, secondo una matematica equazione politica, a più mercato, più impresa, più lavoro, più intervento dei privati quindi zero assistenzialismo. Non solo, in Italia manca ed è mancato negli ultimi anni il senso dello Stato e della dignità delle istituzioni, il senso di una giusta partecipazione nell’attività politica del pubblico e del privato in equa misura, è mancato il buon governo inteso come la capacità di divulgare e far accettare regole ed etica per il bene collettivo.

È mancata una vera tutela degli interessi nazionali che non si esplica nel sovranismo fine a sé stesso ma nella capacità di affermare un’identità ideologica precisa e orgogliosa. Questa premessa è dirimente per inquadrare cosa si intenda per “rivoluzione liberale”, storicamente emersa in antitesi ai totalitarismi e agli estremismi che condizionavano le libertà fondamentali, sociali ed economiche dei cittadini.

Quando leggo di virate al centro e moderate da parte di alleati della coalizione di centrodestra non nego che mi venga un poco da sorridere, significherebbe rinnegare i loro totem ideologici, il loro antieuropeismo, le loro scelte funzionali all’assistenzialismo da divano.

Se si volesse invece dare credibilità a un offerta politica plurale del centrodestra, nell’ottica di un vero e proficuo dialogo interno alla coalizione, si dovrebbe intraprendere una strada diretta e contraria a quella perseguita in politica economica e sociale nelle ultime legislature, compresa quella in corso.

Una strada che declinerei in scelte chiare e sostanziali: riduzione della spesa pubblica anche attraverso l’abolizione del reddito di cittadinanza, di Quota 100, di bonus e sussidi ma con un potente e profondo ripensamento del sistema di welfare ora stratificato malissimo; più intervento privato meno intervento statale (dalle nazionalizzazioni ai salvataggi di imprese in ginocchio); una riforma del fisco che la smetta di raccontare la favola sinistroide per cui i ricchi devono pagare le tasse (si pensi che solo il 5,3% dei contribuenti dichiara più di 50mila euro, versando il 39,2% dell’Irpef totale) perché la verità è che è proprio la classe media, colonna di portante di un’economia sana, a pagarle per tutti; una politica estera europeista che si inquadri nettamente nel perimetro del Ppe e non lo insegua a seconda delle opportunità.

In buona sostanza l’assetto da coalizione torna ad essere centrale nel centrodestra se davvero si persegue questa proposta turbo-liberale, oscurando il populismo e il sovranismo per intrinseca natura nemici del liberalismo economico.

E Forza Italia in tal senso gioca un ruolo fondamentale e di primaria importanza, unica forza politica ad interpretare fin dalla sua fondazione questo messaggio: c’è uno spazio politico enorme, questo è vero, ma a una domanda tanto esigente manca l’offerta e va costruita. A partire da una classe dirigente che comprenda che il ceto medio e produttivo italiano deve essere tutelato, accompagnato, valorizzato per rimettere in moto l’economia del Paese.

Forza Italia può ripartire interpretando per prima e con credibilità questa proposta perché, consiglio non richiesto, per affrontare e realizzare una vera “rivoluzione liberale” bisogna prima sapere dove sta di casa il liberalismo. Dobbiamo prima di tutto chiarirci le idee e mettere a fuoco il bersaglio senza il timore di scontrarsi con l’ondata statalista imperante.

Se quindi deve essere apertura ad altre forze politiche e della società civile auspico, in senso crociano, che questa voglia di cultura liberale lieviti trasversalmente andando a plasmare un centrodestra nuovo, moderato e liberale appunto.

È la battaglia delle idee che torna prepotentemente sulla scena politica nazionale dopo l’esperienza fallimentare dell’uno vale uno: ascensore sociale, merito, mercato, competenza. Torna il pensiero a farla da padrone e non l’ignoranza. Facciamoci trovare pronti.

Per tutte queste ragioni muovo un appello al mio partito: non lasciamo che siano i nemici o i nostri detrattori a stabilire chi sia liberale e chi no. Non lasciamo ad altri la nostra bandiera identitaria. Ritroviamo il baricentro della nostra storia politica e interpretiamo il presente con coraggio. Solo noi possiamo farlo, ma prima dobbiamo volerlo.

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