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“Dottore non dubito della qualità dei progetti presentati dal territorio, ma dubito invece del loro stare insieme. Le spiego con una metafora, immaginiamo che la strategia di sviluppo territoriale sia un puzzle e che ogni progetto corrisponda ad un pezzo del puzzle, nel caso del territorio che le si accinge a rappresentare a Bruxelles nei prossimi anni, sappia che l’immagine che abbiamo, ad oggi, di voi è un patchwork coloratissimo ma pur sempre un patchwork, il che significa che da Bruxelles non percepiamo una strategia…”. Tale fu la preziosa lezione ricevuta (in occasione di un mio subentro professionale) nel 2013 da un importante decisore europeo.

Ma torniamo alla stretta attualità e più precisamente al Piano nazionale di riforma. Per quanto esista già da diversi anni, solo oggi per questioni di “primum vivere” il Pnr fa il suo esordio presso il grande pubblico. E lo fa, come fu già in passato per i Parametri di Maastricht e per il Fiscal Compact, in veste di spauracchio (nella fattispecie in quanto condizione sine qua non nell’ottenimento dei miliardi europei).

In questa fase poi, viste le scadenze ridotte richieste da Bruxelles, il Pnr è diventato anche lo spauracchio di tecnici ed accademici impegnati a riempire in poche ore schede tipo da mettere in pancia alla proposta da inviare nella capitale belga. Quello che stride in tutta questa situazione è il fatto che malgrado le attenuanti legate al carattere di estrema eccezionalità che stiamo vivendo, sembriamo patire di una lacuna strutturale che viene da lontano ovvero la mancanza di un ecosistema di grandi progetti capaci di definire la strategia del Paese in Europa (ed oltre). Dote questa, che è una condizione imprescindibile per un qualsiasi Sistema Paese che si rispetti.

Diverse ne sono le ragioni. Primo, da troppi anni il Sistema Italia fatica a permeare i gangli strategici all’interno della Commissione (direttori e capi unità NB) cosa che invece i nostri partner europei grandi e piccoli sanno fare bene. Secondo, non esiste un vero Sistema Paese in ambito di progetti europei dal momento che i due principali player da cui passa la valorizzazione del capitale umano, ovvero università ed aziende, non fanno quasi mai squadra, a riprova il bilancio degli ultimi sette anni dei Progetti Horizon 2020 (la Champions League della progettazione europea) in cui l’Italia spesso fallisce dove altri riescono (al netto di straordinarie eccellenze). Terzo, l’assenza di una cabina di regia in grado di risolvere i due problemi precedenti; in tal senso, qualcosa sembra apparire all’orizzonte, ma bisognerà vedere se dagli annunci si riuscirà a produrre risultati concreti.

Tornando alla stringente attualità, non dubito del fatto che sapremo anche in tempi brevi inviare a Bruxelles progetti validi ma mi domando se dal puzzle emergerà un’immagine di un Paese che ha una strategia per progredire. I patchwork sono belli da vedere, ma non portano lontano…

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