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Il Covid-19 ha terremotato un assetto (economico, sociale, istituzionale) già precario di suo, spalancando spazi inediti di discussione, anche a livello Ue. Alcune categorie concettuali hanno perso quota (almeno apparentemente: penso all’austerità, che oggi si tende a vestire con l’abito, che vorrebbe essere più rassicurante, della sobrietà), altre sono tornate in auge, dopo anni di assoluta latitanza dal dibattito pubblico.

Fra queste ultime, la più rilevante è certamente quella del “fondo perduto”. Si levano infatti da più parti voci (ultima in ordine di tempo, pochi giorni fa, quella, autorevolissima, del premio Nobel per l’economia Stiglitz) invocanti – quale principale soluzione economica alla crisi pandemica in atto – l’erogazione (agli Stati, e dagli Stati alle imprese, e attraverso le imprese ai loro dipendenti, e quindi alle famiglie di questi ultimi) di risorse finanziarie a fondo perduto.

L’espressione, come detto a lungo caduta in sostanziale desuetudine perché indicativa di una formula ideologicamente in disgrazia, era e resta usata inerzialmente, come tante adoperate dalla notte dei tempi. Nel senso che è andata perduta l’abitudine di interrogarsi sulla sua stessa struttura semantica e sulle sue dirette implicazioni.

Rinnoviamoci allora la domanda: “perduto” in che senso? È da qui che occorre partire, perché il punto è quello centrato da Stglitz: di fronte ad una crisi di sistema così ampia e drammatica, la soluzione principale non può essere la formula del prestito. La soluzione prioritaria è l’erogazione (con idee chiare, senso della misura e nessun buonismo per comportamenti devianti) a fondo perduto.

Il prestito è formula congrua quando il funzionamento delle economie di mercato ha luogo in tempi ordinari. In quei casi, è perfettamente coerente con lo schema generale che il prestito debba essere restituito, che abbia un costo e, soprattutto, che venga concesso non a tutti indiscriminatamente, ma solo a chi sia ritenuto in grado di restituirlo, e perciò “se lo merita” (è il famoso “merito di credito”, altra locuzione sulla quale dovremmo tornare a riflettere, in quanto essenziale ed enigmatica allo stesso tempo).

Sennonché, questi non sono tempi normali.

Interrogarsi sulla sopravvivenza di un singolo operatore economico alla crisi pandemica in atto, è, oggi, scommessa pura. Muovendo da questa premessa, già andare con il pensiero alla formula economica del prestito tende a rivelarsi una falsa partenza, per il tanto di contraddittorio e paradossale che in essa c’è (prestito sì, ma restituito da chi?).

Non è tempo – dato il livello dell’emergenza – di andare troppo per il sottile, di affidarsi alla distinzione fra chi, all’interno del sistema produttivo, ha merito di credito e chi non lo ha, fra chi verosimilmente potrà essere in grado di restituire il prestito e chi no. Non è tempo di premiare (con la concessione del credito) i migliori e i più forti. È tempo, piuttosto, di fare a livello politico-istituzionale di tutto (ripeto, di tutto) per assicurare la tenuta dell’intero sistema, economico e con esso sociale (e di riflesso, infine, istituzionale).

“Perduto” allude al perdere. Ma perdere, in che senso? Soprattutto, perdere, per cosa? La risposta è semplice: perdere, per trovare. Anzi, per ritrovare. In gioco c’è non meno che il destino, per quanto più direttamente ci riguarda, del vecchio Continente e del nostro Paese.

“Perduto” è perciò aggettivazione che va riesaminata, riapprofondita, riscoperta, e colta, rinnovatamente, nel suo significato positivo, togliendole di dosso quel che di ambiguo, di sottensivo di giudizi di valore (densi di senso di gravità, se non di malcelata riprovevolezza morale, secondo la legge economica prevalente) rispetto a un certo modo di vedere le cose. Occorre insomma depurarla del non detto che ha finito con il determinarne una percezione a tratti fuorviante.

Sì, in tempi estremi, il fondo (può rischiare di essere) perduto, per (la necessità e l’urgenza di) ritrovarsi. Come Paese.

Sì, fondo perduto è la via maestra (ovviamente, con idee chiare, senso della misura e rigore per i comportamenti di devianza di chi, ad esempio, si veda assegnate questo tipo di risorse e chiuda cionostante i battenti, peggio ancora se per finta) per provare a salvare il sistema (economico-sociale, e di riflesso istituzionale). Perché adesso il sistema è il momento di provare a salvarlo, non semplicemente di efficientarlo (selezionando i soli meritevoli di credito).

Come ho già accennato in altro intervento su Formiche.net, è possibile, se non probabile, che, in questa difficilissima contingenza, parte della risorse pubbliche che saranno immesse nel sistema economico italiano finisca anche a chi non si è distinto in positivo, in passato, nel rapporto con i doveri fiscali cui tutti siamo tenuti (se non altro, per impossibilità materiale di fare, nel poco tempo a disposizione per erogare risorse a fondo perduto, le attente operazioni selettive che sarebbero altrimenti doverose).

Di qui, la necessità che lo schema dell’erogazione di risorse a fondo perduto sia associato, invariabilmente e strettamente, a un grande, rinnovato e serio Patto fiscale nazionale, fra Stato e cittadini, ad iniziare da quelli che in tutti questi decenni hanno portato sulle spalle il peso del fisco italiano anche per coloro che a quei doveri si sono sottratti. Perché il fisco italiano ha certamente mostrato limiti molto importanti (pressione complessiva troppo alta, bassa capacità di cogliere la forza reale dei crediti di imposta nel generare un effetto moltiplicatore del gettito, debolezza con i forti e forza con i deboli, ecc.), ma i 100 miliardi di costante evasione fiscale (prima del coronavirus, ovviamente) restano non un grande problema, ma uno dei principali problemi.

Questo Patto fiscale nazionale, insisto, dovrebbe perciò contenere, anzitutto, la garanzia – declinata in forma molto cogente, molto efficiente e molto trasparente – che, beninteso dopo lo sforzo collettivo di adesso (per alcuni, l’ennesimo), e quindi dopo che l’economia italiana sarà ripartita, non si tornerà – come se nulla fosse accaduto – al punto di partenza, sul piano dell’evasione fiscale. Ogni altro ragionamento, viene dopo.

Ma accanto allo sviluppo di un’adeguata azione di contrasto per non tornare su livelli monstre di evasione fiscale, tuttavia, occorre – senza se e senza ma – anche una incisiva e coraggiosa riforma fiscale, che dia finalmente agli italiani un fisco più calato nelle dinamiche del presente, più equo, più semplice, più digitalizzato.

Tutto questo non serve presto. Serve subito.

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