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Sono trascorsi ventotto anni dall’assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli agenti che componevano la sua scorta, un tempo ormai abbastanza lungo. Se si sente il bisogno di commemorarlo ancora – assieme a tante altre vittime di mafia – è certamente per la stima e la riconoscenza che tanti, nel nostro Paese, gli conservano. Ma forse anche perché, paradossalmente, il ricordo di lui si va sbiadendo: purtroppo, oggi, molti adolescenti e tanti giovani non sanno chi sia stato Giovanni Falcone.

Eppure Falcone è stato uno dei principali capofila della grande carovana che in Italia ha camminato controcorrente, resistendo alle mafie. Il rischio dell’oblio era già paventato dal giudice Paolo Borsellino, anche lui caduto a Palermo, in quella stessa estate del 1992, sotto i colpi della mafia e fors’anche di altri poteri deviati che della sua morte, come di quella di Falcone, non potevano che giovarsi.

Per questo Borsellino, dopo soltanto un mese dalla strage di Capaci, parlando nell’atrio della biblioteca comunale di Palermo per ricordare il suo amico e collega, spiegò che la lotta alla mafia non poteva ridursi più a “un’opera di repressione”, ma doveva diventare “un movimento culturale” e un “impegno morale” condiviso il più possibile. Per onorare davvero la memoria di Falcone, secondo Borsellino, bisognava mettere in moto un grande sforzo formativo, per coinvolgere specialmente le generazioni più giovani. I giovani infatti, egli affermava, sanno apprezzare ancora “la bellezza del fresco profumo della libertà e della giustizia”, mentre – invece – riescono a disprezzare “il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità”.

Ci sono due parole significative che conviene sottolineare in questa riflessione che Borsellino faceva ricordando Falcone: bellezza e puzza, benché esse non stiano bene in coppia e costituiscano semmai un improbabile binomio. Anche un’altra vittima della mafia siciliana, Peppino Impastato, ucciso nel 1978, usava spesso queste parole rivolgendosi proprio ai giovani che seguivano la sua trasmissione radiofonica, il “famigerato” programma intitolato Onda pazza: Impastato, giovane anche lui, diceva che bisognerebbe ricordare alla gente – prima ancora che cosa siano la vera politica, l’economia equa, persino la giustizia autentica – che cos’è davvero la bellezza, per aiutare le persone a riconoscerla e a difenderla contro la bruttezza del malaffare, sotto cui si celano gli squilibri che rovinano e la trame che asfissiano la nostra società.

Un secolo prima di Impastato, nel 1877, uno studioso della società italiana, Leopoldo Franchetti, venendo in Sicilia a realizzare un’inchiesta sulla situazione che si era venuta a creare dopo l’unità, scrisse che l’Italia intera, non solo la Sicilia o il Meridione, era già a quell’epoca ridotta come un cadavere in decomposizione proprio a causa del malaffare e della corruzione: una carcassa che – appunto – cominciava già a spandere cattivo odore. Meno di cento anni dopo, nel 1960, Leonardo Sciascia, scrivendo Il giorno della civetta, annotava che ormai “la linea della palma è avanzata sino a Roma a anzi oltre”, per dire che la desertificazione valoriale che la mafia aveva causato in Sicilia stava dimostrandosi la febbre di cui il Paese tutto quanto s’era ammalato.

Per questo dico che Giovanni Falcone ha fatto parte di una lunga resistenza alla mafia, di una grande carovana che parte da lontano, addirittura dall’unità d’Italia, e ancora si ritrova in un esodo interminabile, restando ad oggi senza patria. A questa carovana si è aggregato recentemente papa Francesco, quando – nel 2015, a Scampia, popoloso e popolare quartiere di Napoli – ha paragonato la corruzione di matrice camorristica alle montagne di spazzatura maleodorante che vedeva lungo le strade della cosiddetta terra dei fuochi. “La corruzione spuzza” – disse in quell’occasione papa Francesco, nel suo esperanto fatto di espressioni castigliane e di echi dialettali piemontesi – e la bruttezza delle vie, delle case, dei quartieri, delle nostre città, manifesta il tornaconto che opprime molti e avvantaggia pochi, nonché il malaffare da cui siamo subdolamente governati, anzi tiranneggiati.

Giovanni Falcone si era ribellato, a suo modo, da magistrato e da uomo giusto, a questa tirannia e aveva intuito che le armi che la giustizia deve impugnare non possono essere semplicisticamente le stesse di quelle che impugnano i mafiosi e i corrotti: non possono essere i mitra e le pistole, men che meno i pizzini con cui si elude il controllo della legge e le mazzette con cui si pagano le tangenti. L’arma vincente è, piuttosto, l’educazione alla bellezza, all’equilibrio e all’armonia sociale, all’impegno per il bene comune e perciò al rispetto di tutte le persone, nessuna esclusa.

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