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Sabato 12 aprile 2025, Iran e Stati Uniti si incontreranno in Oman per un round di negoziati ad alto livello, un evento che potrebbe segnare un nuovo punto di svolta nelle relazioni tra i due Paesi, da decenni caratterizzate da tensioni e sfiducia reciproca. Fiducia definitivamente distrutta dalla ritirata unilaterale dall’accordo sul programma nucleare noto con l’acronimo “Jcpoa”, voluta da Donald Trump durante il suo primo mandato e sostanzialmente confermata dalla successiva presidenza Biden — nonostante iniziali tentativi di riallacciare i rapporti per recuperare i termini dell’intesa.

Ora siamo di nuovo davanti a un tentativo di contatto. L’annuncio ufficiale dei colloqui è stato dato dal ministro degli Esteri iraniano, Seyed Abbas Araghchi: “Iran e Stati Uniti si incontreranno in Oman sabato per colloqui indiretti ad alto livello. È tanto un’opportunità quanto una prova. La palla è nel campo dell’America”. Tuttavia, fin da subito, è emersa una certa confusione sulla natura di questi colloqui, con Washington e Teheran che sembrano offrire versioni contrastanti.

Colloqui indiretti o diretti?

Mentre Araghchi ha sottolineato che i negoziati saranno “indiretti” – una modalità che implica la mediazione di Oman, storico canale di comunicazione tra i due Paesi – la Casa Bianca ha fatto capire che gli Stati Uniti intendono condurre “colloqui diretti”, alimentando un dibattito sulla reale natura dell’incontro. I colloqui indiretti funzionano così: le delegazioni dei due paesi si trovano in uno stesso luogo ma in stanze separate, affidando le comunicazioni a una staffetta diplomatica — in Europa sono solitamente gli svizzeri a farsi carico di trasportare i messaggi, sabato dovrebbero essere gli omaniti. Questo significa che non ci sarà contatto vis-a-vis tra le due delegazioni, e ciò non piace a Donald Trump, che al di là del protocollo diplomatico vede la diplomazia in termini molto transazionali e più facilmente veicolabile faccia a faccia.

Tale discrepanza non è dunque solo una questione di semantica. La differenza è importante, poiché colloqui diretti implicherebbero quel livello di apertura e fiducia che manca da anni, mentre quelli indiretti riflettono un approccio più cauto, mediato da un terzo attore. Con il primo metodo si possono ottenere risultati più rapidi se si crea velocemente un clima positivo, ma si possono anche rompere gli equilibri in modo repentino; l’altro permette di ponderare mosse e contromosse con maggiore cautela e più meccanismi di salvaguardia. In sostanza, gli Usa sembrano interessati a qualcosa di solido e immediato, l’Iran ad avviare un processo tramite un primo passaggio interlocutorio.

Trita Parsi, politologo iraniano naturalizzato svedese molto esperto del regime di Teheran, offre una riflessione interessante, frutto anche di un approccio possibilista che caratterizza la sua visione verso l’Iran: “Ci sono poche ragioni per credere che Teheran avrebbe mandato il suo ministro degli Esteri in Oman per parlare indirettamente con l’inviato di Trump [Steven] Witkoff. Non avrebbero mandato il loro diplomatico di punta. Quindi è ragionevole aspettarsi che l’incontro di sabato si concluderà con colloqui diretti”. Parsi fa notare che questo è davvero notevole, considerando che l’amministrazione Biden non è mai riuscita ad arrivare a questo punto in quattro anni, nonostante anche i democratici avessero preferenza per i colloqui diretti.

Diplomazia, ma senza tempi lunghi

Anche sulla base di complicate esperienze passate, l’approccio statunitense a questi negoziati sembra essere improntato a una certa urgenza. Morgan Ortagus, vice inviata speciale per il Medio Oriente della Casa Bianca (sotto Witkoff), ha espresso chiaramente questa posizione durante un’intervista ad Al Arabiya: “Non vogliamo i tempi lunghi della diplomazia. Vogliamo risultati concreti e rapidi”. Ortagus ha aggiunto che gli Stati Uniti sono pronti a esercitare pressione massima sull’Iran, se necessario, per garantire che Teheran non sviluppi armi nucleari: “Non possiamo permettere che l’Iran diventi una potenza nucleare. È una linea rossa per noi e per i nostri alleati nella regione”.

Questo atteggiamento riflette la strategia di Trump, che in passato ha alternato minacce di azioni militari a offerte di dialogo, ma sempre con l’obiettivo di ottenere concessioni significative da parte iraniana. Non a caso, a Washington è tornato in questi giorni il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che ha approfittato di un incontro con Trump per discutere della questione iraniana. Durante la visita, l’israeliano non ha solo visto reiterare la politica di dazi contro lo Stato ebraico, ma ha anche ascoltato Trump annunciare il prossimo incontro — creando il dubbio se fosse stato avvisato o colto di sorpresa. Netanyahu è chiaramente scettico sulle possibilità di un accordo nucleare tra Usa e Iran. Ma sebbene ritiene (probabilmente a ragione) che le probabilità di un’intesa siano estremamente basse, ha provato a presentare a Trump ciò che un buon accordo dovrebbe essere per lui. Il modello che Netanyahu ha in mente è quello della Libia, spiegano funzionari israeliani ad Axios: “Netanyahu vuole il modello Libia. Smantellamento completo del programma nucleare iraniano”.

L’Iran ha sempre negato di voler sviluppare un’arma nucleare, ma rifiuta categoricamente l’idea di chiudere del tutto il suo programma nucleare, che considera un diritto sovrano per scopi civili. La distanza tra i punti di partenza sembra abissale. Anche per questo Netanyahu avrebbe cercato di raggiungere un’intesa con Trump su un possibile attacco alle strutture nucleari iraniane nel caso in cui la diplomazia fallisse, un’opzione che Israele considera da tempo come extrema ratio per neutralizzare la minaccia percepita da Teheran. Non è chiaro quanto la Washington America First di Trump possa essere disposta a una tale avventura militare e strategica – d’altronde, anche al di fuori della cerchia degli elettori di Trump, non ci sarebbe troppo consenso su certo genere di operazioni.

Un contesto regionale incandescente

Allargando lo sguardo, l’incontro di sabato si inserisce in un contesto mediorientale già estremamente teso. Le recenti escalation militari nella regione – tra cui la guerra a Gaza, gli attacchi in Libano, la destabilizzazione indo-mediterranea dallo Yemen e i cambi di leadership in Siria – hanno ulteriormente complicato il quadro. Le schermaglie tra Israele e Iran — per ora in forma proxy — stanno raggiungendo livelli preoccupanti. In questo scenario, l’esito dei colloqui di Oman potrebbe avere ripercussioni non solo sulle relazioni tra Iran e Stati Uniti, ma sull’intera stabilità del Medio Oriente e dunque internazionale.

Come ha scritto Araghchi, l’incontro di sabato rappresenta “tanto un’opportunità quanto una prova”. Per l’Iran, è un’occasione per dimostrare la propria volontà di dialogo, ma anche per testare la serietà degli Stati Uniti nel rispettare eventuali accordi. Per Washington, è un banco di prova per la strategia di Trump, che sembra voler combinare pressione e diplomazia per ottenere un risultato che soddisfi gli interessi americani e quelli dei suoi alleati, in primis Israele. Resta da vedere se le due parti riusciranno a superare le loro divergenze – a partire dalla stessa definizione dei colloqui – o se questo incontro sarà solo l’ennesimo capitolo di una saga di tensioni senza fine.

Cosa aspettarsi dal riavvio (trumpiano) dei colloqui Usa-Iran sul nucleare

Come ha scritto il ministro Araghchi, l’incontro di sabato rappresenta “tanto un’opportunità quanto una prova”. Resta da vedere se le due parti riusciranno a superare le loro divergenze – a partire dalla stessa definizione dei colloqui – o se questo incontro sarà solo l’ennesimo capitolo di una saga di tensioni senza fine. I colloqui come potenziale vettore di stabilizzazione, ma anche come rischio di aumento del caos regionale

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