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Mentre Gaza è ridotta in macerie, l’Ucraina combatte una guerra d’attrito nel cuore dell’Europa, e gli Stati Uniti si preparano all’incognita di un nuovo possibile mandato trumpiano, una domanda ritorna con urgenza: chi comanda davvero, e con quale legittimità? Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nato nel 1945 per garantire la pace attraverso l’equilibrio tra le potenze, appare oggi più come un freno che come una guida. Immobilizzato da veti incrociati, riflesso di rapporti di forza ormai anacronistici, il Consiglio è diventato spesso il teatro dell’impotenza diplomatica.

La composizione del suo nucleo più potente — i cinque membri permanenti con diritto di veto — racconta una storia che non è più la nostra. Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia: vincitori di una guerra lontana quasi ottant’anni, congelati in un’architettura che esclude attori fondamentali del mondo di oggi. Non vi è traccia dell’India, del Giappone, dell’America Latina o dell’Africa. E non vi è un seggio per l’Europa.

Sì, c’è la Francia. Ma non è l’Europa. È uno Stato nazionale che agisce legittimamente secondo il proprio interesse strategico, e che non ha mai parlato con la voce dell’Unione. Il Regno Unito, dopo la Brexit, è ancora meno rappresentativo del continente. Eppure, l’Europa è lì, nel mondo, con il suo peso economico, normativo e valoriale. È la prima donatrice di aiuti umanitari globali, un attore chiave nella transizione verde, un interlocutore essenziale in ogni accordo multilaterale. Ma resta priva di una voce unica nelle sedi che contano davvero.

La grande ipocrisia è tutta europea. L’Unione chiede riforme dell’ordine mondiale, pretende peso geopolitico, investe in difesa comune e autonomia strategica. Ma quando si tratta del nodo più simbolico e più concreto — la rappresentanza al Consiglio di Sicurezza — si tace. Non si osa porre la vera domanda: perché non esiste un seggio europeo? E, più provocatoriamente: cosa trattiene la Francia dal mettere il proprio seggio al servizio di un’Europa unita? Paura di perdere influenza? Sovranismo travestito da pragmatismo? Mancanza di visione storica?

La verità è che senza una voce comune, l’Europa continuerà a essere più spettatrice che protagonista. La sua capacità di influenza si frammenta nella molteplicità degli Stati membri, nelle divergenze tattiche e nei compromessi interni. Ma il mondo non aspetta. I tavoli dove si decidono guerra e pace, sanzioni e mediazioni, sono sempre più affollati da attori assertivi. Se l’Europa non sceglie di esserci con un solo volto, parleranno altri per lei.

Un seggio permanente all’ONU darebbe all’Unione Europea la possibilità di parlare con una sola voce nelle grandi crisi internazionali, rafforzando il suo peso nei negoziati di pace e offrendo una

posizione autonoma rispetto alle vecchie logiche bipolari. In un sistema internazionale segnato da nuove tensioni globali, un’Europa coesa potrebbe farsi portatrice di un ordine multipolare più equo, coerente con i suoi valori di diritto, cooperazione e sostenibilità.

Non si tratta di togliere potere alla Francia, ma di moltiplicarlo dentro una cornice più ambiziosa. La Francia ha già dimostrato in passato — con la nascita dell’euro, con la costruzione della politica estera comune — di saper pensare in grande. È ora che lo faccia ancora. Come per la Banca Centrale Europea o per lo Spazio Schengen, serve oggi una scelta coraggiosa: passare dalla somma degli interessi nazionali a una volontà politica condivisa.

Il mondo cambia rapidamente. Il multilateralismo, se vuole sopravvivere, ha bisogno di credibilità, inclusione e capacità di decisione. L’ONU ristagna in una struttura che premia lo status quo. Ma un’Europa che aspira a contare non può più accontentarsi di essere un’ospite silenziosa al tavolo dei vincitori del 1945.

Il momento è adesso. Servono idee nuove e gesti forti. E forse il primo passo è una domanda semplice, da porre con lucidità e determinazione: a chi serve davvero, oggi, il seggio permanente della Francia?

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Di Raffaele Volpi

Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nato nel 1945 per garantire la pace attraverso l’equilibrio tra le potenze, appare oggi più come un freno che come una guida. Servono idee nuove e gesti forti. E forse il primo passo è una domanda semplice, da porre con lucidità e determinazione: a chi serve davvero, oggi, il seggio permanente della Francia? La riflessione di Raffaele Volpi

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