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L’arresto di 33 cittadini russi nei dintorni di Minsk e le accuse del presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko al Cremlino di voler destabilizzare il paese rappresentano una nuova, importante, tappa nei rapporti sempre più tesi tra Russia e Bielorussia.

Mosca e Minsk fino a qualche anno fa erano strettamente legate, tra i Paesi vi è l’Unione statale (Sojuznoe gosudarstvo), che garantisce dal 2000 la possibilità di lavorare nei due paesi senza dover sottostare alle leggi locali sull’immigrazione, e l’unione doganale. Lukashenko, visto per anni anche sulla stampa occidentale come proxy del Cremlino, in realtà ha sempre rifiutato l’idea di procedere a una maggiore integrazione all’interno dell’Unione, temendo la perdita dell’indipendenza bielorussa e anche di un proprio ruolo nella nuova cornice.

Inoltre, le richieste di Minsk di ottenere, in cambio di concessioni all’integrazione, maggiori sconti su gas e petrolio, sono state rifiutate durante le ultime trattative del dicembre 2019, mentre la proposta di Mosca di unificare il sistema fiscale è stata sin dall’inizio affondata dai rappresentanti bielorussi.

Il fermo e l’arresto dei 33, accusati di essere contractors alle dipendenze della compagnia militare privata Wagner, e i sospetti avanzati dalle autorità bielorusse di tentativi da parte di Mosca di destabilizzare le elezioni presidenziali sono notizie in grado di sconvolgere completamente lo scenario delle relazioni tra i due paesi e di avere effetti non solo a breve durata, ma sul lungo periodo negli equilibri della regione.

Da parte russa, si nega ogni coinvolgimento nella politica interna russa, e a proposito degli arrestati è stato dichiarato, attraverso i canali diplomatici, che la destinazione del gruppo era Istanbul, da cui sarebbero partiti per l’Africa o per l’America Latina. Di certo, l’arresto non solo ha mandato su tutte le furie i russi, ma ha anche svelato il segreto di Pulcinella degli appoggi e dei sostegni della compagnia di contractors, al centro di molte operazioni in Siria, Libia e in Africa centrale.

Per la prima volta dal 1994, le possibilità di successo di Lukashenko alle urne appaiono meno trionfalistiche degli exploit a cui il Batko è abituato. Lo stato dell’economia bielorussa è critico, la scelta di non ricorrere praticamente ad alcuna misura di contenimento dell’epidemia non è stata accolta bene da gran parte della popolazione, legittimamente preoccupata.

Lukashenko con le sue esternazioni non è stato da meno, la sua dichiarazione su come curare il coronavirus con la sauna e qualche bicchierino di vodka se all’inizio ha suscitato irritazione, poi è stata oggetto di meme di ogni tipo. Anche questo atteggiamento ha pesato nelle relazioni con Mosca, dove misure di contrasto e di isolamento son state adottate, e la conseguenza dell’approccio di Minsk è stata la chiusura del confine da parte russa.

Le elezioni presidenziali del 9 agosto fino a qualche mese fa erano viste come un appuntamento di routine, dove, tra inerzia e ricorsi alle risorse amministrative, la vittoria di Lukashenko era data per scontata. Ma le contraddizioni sviluppatesi in primavera e sfociate nell’inatteso sostegno di una parte della società e delle élite bielorusse ai candidati, che avrebbero dovuto essere degli sparring partner di comodo, ha impaurito il presidente, e ne ha dettato le reazioni.

La candidatura di Viktor Babariko, banchiere, presidente di Belgazprombank, banca legata a doppio filo con il colosso energetico Gazprom, è stata vista come una intromissione russa negli affari interni di Minsk, interpretata come la ricerca da parte di Mosca di un’alternativa a Lukashenko.

A sostegno di Babariko si sono mossi vari esponenti del mondo della cultura, tra cui il premio Nobel Svetlana Aleksievič, e anche gli ex candidati alle presidenziali del 2010 Vladimir Nekliaev e Andrey Sannikov, in una dinamica che ha portato alla raccolta di oltre 425.000 firme per la presentazione della candidatura del banchiere, arrestato il 18 giugno con le accuse di evasione fiscale e di aver organizzato il trasferimento illegale di circa 430 milioni di dollari in conti di comodo aperti in Lettonia. In realtà i tempi e i modi dell’arresto appaiono legati essenzialmente al timore di un paventato secondo turno tra Babariko e Lukashenko, e da alcuni sondaggi dove il banchiere era dato al 50%.

Prima di Babariko, ad essere arrestato era stato il blogger Sergey Tikhanovsky, autore del canale YouTube Strana dlya zhizni (Un paese per la vita), dove si denunciavano casi di corruzione nelle amministrazioni locali e le ingerenze del potente Kgb (il Comitato di sicurezza statale ha lo stesso nome d’età sovietica) nella vita quotidiana. Anche Tikhanovsky aveva presentato la propria candidatura, per poi essere arrestato il 29 maggio: al posto del blogger, la moglie, Svetlana Tikhanovskaya, ha presentato le firme necessarie per essere ammessa alle elezioni.

Anche Valery Tsepkalo, già ambasciatore bielorusso negli Stati Uniti dal 1997 al 2002 e presidente (fino al 2017) del Parco delle innovazioni tecnologiche, era in corsa per le elezioni, ma il Comitato esecutivo elettorale bielorusso ha rifiutato la sua registrazione, ritenendo invalide 130.000 delle 220.000 firme raccolte a sostegno della candidatura. Tsepkalo si è rifugiato all’estero con i figli, temendo possibili arresti, e nel paese è restata la moglie, Veronika, in prima linea nella campagna elettorale al fianco della Tikhanovskaya.

Infatti, il risultato delle esclusioni dalle urne e degli arresti è stato il riunirsi attorno alla figura della Tikhanovskaya come anti-Lukashenko, e il successo registrato nei comizi da parte della candidata è notevole, con presenza di decine di migliaia di persone. L’unità è rappresentata dalla presenza di Tsepkalo e Maria Kolesnikova (per il comitato elettorale di Babariko) in prima linea con la Tikhanovskaya, di fatto la campagna elettorale delle opposizioni vede tre donne come volto della linea anti-Lukashenko.

In più, a differenza del passato, non vi è la contrapposizione tra lingua bielorussa e russa (entrambi idiomi ufficiali del paese) – nei comizi si alternano interventi in entrambe le lingue, indice di come ad unire i bielorussi sia una comune identità di cittadinanza del proprio paese più che appartenenze linguistiche o confessionali (nell’occidente è concentrata la presenza cattolica, pari al 15% della popolazione).

I casi di Babariko e Tsepkalo sono significativi, perché rappresentano un importante segnale di fratture all’interno dell’élite bielorussa. Le posizioni espresse in queste fratture non mettono però in discussione gli orientamenti di politica estera di Minsk, perché negli ultimi anni la Bielorussia si è barcamenata tra Unione Europea, Russia, Cina e Usa. Anzi, è proprio l’attuale potere, con l’arresto dei 33, a rompere con Mosca, senza riuscire però ad accreditarsi come interlocutore credibile presso le capitali europee.

Come sottolineato da Artyom Shraibman, politologo bielorusso, il passo intrapreso da Lukashenko rischia di essere controproducente, anche perché le opposizioni non hanno seguito il presidente sulla scia delle posizioni antirusse, e anzi, hanno avanzato forti sospetti sulla tempistica e le modalità dell’operazione.

Unica ad aver espresso interesse e un certo sostegno a Lukashenko nel caso dei 33 è stata Kiev, interessata ad ottenere l’estradizione di alcuni degli arrestati, accusati di aver preso parte al conflitto nel Donbass dalla parte dei separatisti, e di cui si adombra un consistente aiuto nella preparazione del casus belli con Mosca attraverso i servizi di sicurezza.

A Mosca l’irritazione è palpabile: alle richieste avanzate dal ministero degli esteri russo Minsk non ha risposto, e nel frattempo i media russi, senza distinzione alcuna, coprono gli ultimi giorni di campagna elettorale in Bielorussia con particolare attenzione e dovizia di particolari. Sui canali federali non si contano i talk show dove Lukashenko viene sbeffeggiato e attaccato, mentre nei notiziari largo spazio è dato ai comizi di Svetlana Tikhanovskaya, qualcosa di poco immaginabile sino a qualche mese fa. La denuncia preventiva di un possibile Maidan, provocato attraverso l’intrusione nel paese dei sabotatori, di cui gli arrestati sarebbero una piccola parte, serve al presidente per garantirsi mani libere nei giorni successivi alle elezioni, in caso di proteste di piazza e di scontri.

Lukashenko vincerà. Vincerà perché comunque può contare su una serie di leve, amministrative e repressive, in grado di garantirgli l’affermazione nelle urne, ma è importante vedere cosa succederà dopo. Già circolano documenti, ordinanze e voci riguardo la concentrazione di militari nella capitale, il ministero della difesa ha comunicato l’avvio delle manovre militari nella regione di Vitebsk (al confine con la Russia) dall’11 agosto, e alle manovre son stati richiamati i riservisti.

La rottura con Mosca, la freddezza da parte europea e l’enigma di Washington (grande assente al momento) rappresentano problemi non da poco per la politica estera di Minsk, mentre all’interno del paese per la prima volta dal 1994 emerge una possibile alternativa al dominio di Lukashenko, in grado di poter avere ulteriori sviluppi. Si apre una nuova pagina negli equilibri regionali in Europa orientale, e nessun esito appare al momento scontato.

 

(Foto: Wikimedia)

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