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Il dibattito all’interno dell’Ue sulle misure da adottare per fronteggiare l’emergenza Coronavirus e la spaccatura tra due diverse anime (da un lato i Paesi mediterranei, dall’altro quelli del nord Europa), ha portato a mettere in discussione tanto il metodo quanto l’impalcatura comunitaria.

Al netto delle divisioni tra singoli Paesi, la risposta lenta e insufficiente dell’Ue sancisce la necessità di ripensarne la struttura; non più un’entità sovranazionale priva di identità, che non tenga in considerazione il proprio retaggio culturale e le sue radici cristiane, ma un’Europa delle nazioni.

Un’Europa che, volente o nolente, dopo questa crisi dovrà allentare la presa sugli Stati nazionali, concedendo loro spazi di autonomia e libertà impensabili in tempi di “pace”. È un riconoscimento dovuto. Dagli Stati nazionali, infatti, è arrivato l’aiuto ai cittadini in queste settimane difficili. Sono le nazioni che hanno garantito assistenza, supporto, risorse, cure mediche mentre l’Ue era intenta a discutere per trovare una soluzione.

Paradossalmente finora l’Italia, la nazione più colpita dal coronavirus, ha ricevuto più aiuti da fuori i confini dell’Ue che da quella che gli europeisti amano definire “la nostra casa”, nel nome di un non meglio precisato “patriottismo europeo”. Alla luce dell’inerzia mostrata di fronte alla crisi, una domanda non può allora che sorgere spontanea: davvero l’Ue è la nostra casa?

I conservatori hanno da tempo una risposta chiara: no, la casa di ogni cittadino è la propria nazione. Ma la crisi del Coronavirus ha reso evidente questa verità anche a molte persone che si definivano europeiste e hanno votato per partiti che hanno sempre sostenuto una linea pro-Ue.

È passato ormai più di un mese e mezzo da quando la pandemia ha aggredito l’Europa, e, fatta eccezione per alcune misure ordinarie, come l’aumento di acquisti di titoli di Stato, dall’Ue non si è vista nessuna misura davvero straordinaria, a partire dall’Italia e da chi sta pagando il prezzo più alto della crisi. Non deve allora sorprendere se la fiducia delle persone venga meno.

La campagna di aiuti internazionali ne è la prova. La Protezione civile europea ha inviato in Italia un team di medici e infermieri da Romania e Norvegia (che, peraltro, non è uno Stato Ue) solo il 7 aprile. Sedici giorni dopo gli aiuti russi, dieci giorni dopo quelli americani nove giorni dopo quelli albanesi e quasi a un mese di distanza dagli accordi fra Roma e Pechino.

Eppure già l’11 marzo l’Italia aveva chiesto di attivare il meccanismo di protezione civile Ue per fornire attrezzature mediche per la protezione individuale. Non un solo Paese Ue ha risposto all’appello della Commissione. Sono situazioni come queste che portano a domandarsi dove sia la tanto decantata solidarietà europea.

Usa, Russia, Cina, Albania non erano tenuti ad aiutare il nostro Paese. Se il loro aiuto è stato tanto apprezzato dai cittadini italiani è anche perché era inaspettato. Così, fra tante dimenticanze, ha preso vita un nuovo fenomeno che i politologi hanno ribattezzato “geopolitica della solidarietà”. Dietro l’invio di aiuti, la storia insegna, c’è sempre una finalità politica, e su questo lo Stato deve vigilare.

Oggi più che mai, il pensiero politico e il retaggio culturale dei conservatori è fondamentale per poter ragionare di una nuova Europa. Non sempre è facile tradurlo in azione. A Bruxelles, i partiti che si rifanno al conservatorismo sono spesso divisi e frammentati in diversi gruppi parlamentari. Una divisione che, inevitabilmente, rende difficile agire in modo unitario e avere così un impatto concreto sugli equilibri europei (a prescindere dalle fisiologiche diversità di vedute determinate dalla provenienza nazionale).

Oggi i partiti di destra, se vogliamo ancora usare questo termine, sono divisi in tre gruppi: il Ppe (Partito popolare europeo), Id (Identità e democrazia) ed Ecr (Conservatori e riformisti europei). Finché la presenza dei conservatori in Europa sarà così frammentata non si potrà parlare di una linea d’azione comune.

La firma da parte dei leader di alcuni partiti del Ppe pochi giorni fa di un documento per richiedere l’espulsione del premier ungherese Viktor Orban dal Ppe ha fatto sì che si diffondesse di nuovo l’ipotesi dell’adesione del suo partito Fidesz al gruppo Ecr. Anche se dovesse succedere, rimarrebbero comunque esclusi importanti partiti dell’alveo conservatore (come per esempio la Lega in Italia), né si potrebbe certo parlare di un ricongiungimento di tutte le anime della “destra”.

Una road map c’è. La crisi che stiamo vivendo ci costringe ad abbandonare gli schemi utilizzati fino ad oggi e a ragionare attraverso nuove categorie. Le divisioni che fino a pochi mesi fa hanno impedito la creazione di un unico grande gruppo conservatore in Europa, per le diverse posizioni in politica estera e per il ruolo non secondario del Rassemblement National di Marine Le Pen, potrebbero essere oggi cedere il passo di fronte a un obiettivo superiore: la nascita di una grande e trasversale alleanza di conservatori che facciano sentire uniti la propria voce e immaginino, ora e insieme, una nuova Europa.

Conservatori, unitevi! Perché serve un gruppo unico in Ue. Scrive Giubilei

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