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Il tweet con cui il presidente statunitense Donald Trump ha ipotizzato il rinvio delle elezioni presidenziali di novembre continua a far discutere politici, studiosi e accademici. A dimostrazione di quanto affermato ieri su Formiche.net da Lucio Martino, membro del Guarini Institute for Public Affairs della John Cabot University: “In realtà, più che tentare di porre le basi di un qualsiasi rinvio della prossima tornata elettorale, il presidente Trump ha dimostrato ancora una volta di saper egregiamente controllare e influenzare l’intero dibattito politico nazionale, costringendo tanto i suoi nemici quanto i suoi alleati a rispondere direttamente alle sue provocazioni e, così facendo, a restare sempre al centro dell’attenzione dei media e del pubblico senza mai ritrovarsi, per così dire, a dover giocare di rimessa”.

Formiche.net ha affrontato la questione con Cristina Bon, professoressa associata dell’Università Cattolica di Milano, esperta degli sviluppi storico-costituzionali del sistema federale statunitense. “Non possiamo trascurare il fatto che stiamo ragionando su un’ipotesi. Trump in questo momento sta semplicemente ipotizzando che il sistema di voto per posta non sia sicuro”, premette sottolineando che “ci sono però molti studi, tra cui uno di Stanford molto recente, che dimostrano il contrario”.

IL MESSAGGIO PER LA BASE

Che sia stata una sparata per parlare alla sua base elettorale? “Guardando al primo tweet Trump ha mandato un messaggio in linea con la sua retorica e la sua amministrazione, cercando di affermare la sua capacità di agire in maniera unilaterale. Salvo poi venir immediatamente richiamato dai democratici quanto dai repubblicani”. A frenarlo per esempio non soltanto la speaker della Camera, la dem Nancy Pelosi, ma anche il potente senatore repubblicano Lindsey Graham.

“Il suo discorso non si discosta molto da quello del 2016”, continua Bon. “Già allora aveva messo in discussione la legittimità del processo elettorale, accusando la candidata Hillary Clinton e i democratici di brogli”. La professoressa si spinge a dire che “da un certo punto di vista, il suo discorso oggi sembra paradossalmente coerente a quello di quattro anni fa, un collegamento che i suoi sostenitori non mancheranno di notare. Tant’è che già da qualche tempo ci si interroga, indipendentemente dalla pandemia di coronavirus, se Trump possa rifiutare un risultato elettorale a lui sfavorevole. E a farlo sono in particolare i democratici”.

IL PASSO INDIETRO

Il discorso di Trump, però, si fa meno coerente se lo si confronta con l’atteggiamento di pochi mesi fa. Come Bon rileva “a quel tempo il Presidente negava la crisi sanitaria e, di conseguenza, la possibilità di uno slittamento del voto e perfino di misure precauzionali in vista delle presidenziali di novembre”. Al primo tweet ne è seguito un altro, in cui Trump ha fatto un passo indietro.

“Probabilmente Trump si è reso conto che quando c’è di mezzo la Costituzione, anche un leader carismatico deve fare attenzione”, spiega la professoressa. “Il rischio, infatti, è che molti sostenitori possano decidere di non seguirlo su un terreno di sfida diretta al dogma costituzionale. E nemmeno i repubblicani in Congresso sostengono Trump su questa linea. Il ventesimo emendamento della costituzione specifica infatti che il mandato del presidente e del vicepresidente in carica termina a mezzogiorno del 20 di gennaio e quello dei successori inizia in quello stesso momento. La costituzione è dunque piuttosto precisa sulla calendarizzazione del mandato presidenziale. Le tempistiche stabilite dalla legge per le elezioni presidenziali sono inoltre sempre state rispettate, anche durante la Guerra civile e la Seconda guerra mondiale, e negli Stati Uniti il rispetto dei processi elettorali e della prassi costituzionale è fondamentale”.

LA POSSIBILITÀ DI RICORSI

Quanto alla possibilità di ricorsi, aggiunge la professoressa, “molto dipenderà dal risultato specifico delle elezioni, dallo scarto tra i contendenti a livello di Grandi elettori e di voto popolare, da quanti e quali saranno gli Stati, le contee o le circoscrizioni decisivi”.

Soltanto ieri a Formiche.net Mario Del Pero, docente di Storia Internazionale e Storia della politica estera statunitense all’Institut d’études politiques di Parigi, aveva spiegato che il presidente “attacca in forma preventiva, come modo per delegittimare il voto e prepararsi a contestarlo laddove il margine di distacco tra i due candidati dovesse essere particolarmente stretto”. Una possibilità che secondo il professore è “tutt’altro che irrealistica in un Paese così diviso e polarizzato”.

IL PRECEDENTE

Bon evoca il precedente del 2000, che ha visto coinvolti George W. Bush e Al Gore. In quel caso, spiega “ci furono problemi di ricalcolo in un solo Stato, la Florida, e la questione andò avanti per un mese. Immaginiamoci cosa potrebbe succedere in caso di ricorsi in più Stati… Serve tener presente però che qualsiasi processo di ricalcolo o revisione potrebbe non risolversi nei due mesi e mezzo che passano tra il voto e l’inaugurazione della nuova presidenza. Stando ai giuristi e agli esperti costituzionali, se non si arrivasse ad una soluzione di compromesso politico, come sempre avvenuto nella storia degli Stati Uniti in casi dubbi o controversi, si potrebbero aprire scenari finora inesplorati, che non chiamerebbero in causa solo la Corte suprema, ma coinvolgerebbero le legislature degli Stati e lo stesso Congresso e sono peraltro già stati ipotizzati da Lawrence Douglas in Will He Go? Trump and the Looming Election Meltdown in 2020. Douglas insomma ci invita a non dare mai nulla per scontato con Trump, sottolineando che la costituzione americana non assicura una pacifica transizione di potere, ma la presuppone”.

C’è, infine, poi la questione dell’immagine agli occhi dell’opinione pubblica. “L’idea di presidente che con le unghie e con i denti si attacca alla poltrona non rientra nell’immaginario collettivo della presidenza americana”, conclude la professoressa.

Voto e ricorsi, cosa insegna il precedente Bush-Gore. Parla Bon (UniCatt)

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