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Il premier Boris Johnson e il ministro della Salute Matt Hancock sono tra gli oltre 19mila casi di coronavirus nel Regno Unito, Paese in cui le vittime del Covid-19 sono più di 1.200. E mentre il governo sta completando la sua giravolta passando dall’immunità di gregge al lockdown, alcuni ministri hanno iniziato a interrogarsi sul ruolo della Cina in questa pandemia.

L’ultimo è stato Michael Gove, cancelliere del Ducato di Lancaster (in pratica il ministro del Gabinetto) e una delle menti più raffinate del panorama conservatore: è stato lui l’ideologo della campagna Vote Leave per la Brexit oltre che gran consigliere dell’ex premier David Cameron e poi amico/nemico di Boris Johnson. Alla BBC ha spiegato che alcuni segnali dalla Cina su portata, natura e infettività del Covid-19 non erano chiari e ha criticato implicitamente le autorità di Pechino per la loro reazione iniziale. Gove ha spiegato che la mancanza di informazioni da parte della Cina è stata una delle ragioni della lenta risposta internazionale. 

LA RIBELLIONE TORY

Prima di Gove era toccato a sir Iain Duncan Smith, ex leader del Partito conservatore, che in un editoriale di fuoco sul Mail on Sunday ha accusato la Cina di “insabbiamento e ritardi”. “Per troppo tempo”, ha scritto, “le nazioni hanno ceduto penosamente alla Cina nella disperata speranza di ottenere accordi commerciali. Quando ci libereremo di questa terribile pandemia sarà indispensabile ripensare quella relazione”.

Sempre dal Mail on Sunday sono trapelate voci di ministri ma anche di alti funzionali di Downing Street. Un ministro ha sostenuto che il Regno Unito “non può permettere che il desiderio cinese di mantenere la segretezza rovini l’economia mondiale per poi fare come se nulla fosse accaduto”. Il Mail on Sunday cita tre senior official di Downing Street. Uno ha detto che “ripensare” la relazione Regno Unito-Cina “è un eufemismo”. Un altro che “dovrà esserci” una “resa dei conti” finita l’emergenza. L’ultimo che “la rabbia è arrivata fino in cima”. Il che lascia intendere che anche il premier Johnson (che pare sia stato avvertito dagli esperti che la Cina potrebbe avere da 15 a 40 volte in più i casi ufficiali) non sia affatto convinto della reazione di Pechino.

Ripensare la relazione significa, per prima cosa, rivedere l’apertura – seppur limitata – all’ingresso del colosso cinese Huawei nell’infrastruttura 5G del Regno Unito, una decisione che aveva irritato molto il principale alleato britannico specie in chiave Brexit, cioè gli Stati Uniti di Donald Trump. Non è un caso, infatti, che il commento più feroce sia arrivato da sir Iain Duncan Smith, che alcune settimane fa aveva persino paragonato la Cina alla Germania nazista e il via libera di Huawei a quello di un’azienda tedesca per sviluppate i sistemi radar britannici nel 1939. È stato lui a organizzare la rivolta dei alcuni parlamentari tory contro l’apertura a Huawei – “soffocata solo per ora”, dicono nel Partito conservatore.

IL RILANCIO EUROPEO

Che il coronavirus possa essere l’inizio di una resa dei conti sembra essere un’idea condivisa anche dagli Stati Uniti. Basti pensare agli applausi statunitensi ricevuti dalla Grecia quando alcuni giorni fa ha scelto Ericsson aprendo di fatto la strada ad un’alternativa a Huawei che fino a ieri sembrava non avesse rivali. O, ancora, al tweet del segretario di Stato americano Mike Pompeo dopo un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian: “Abbiamo avuto una discussione positiva sulla Nato, sul mantenimento dell’integrità delle nostre reti 5G e sul contrasto del terrorismo in Africa”. 

La resa dei conti si avvicina e Huawei rischia di diventare la prima vittima collaterale. Anche in Europa, dove si sta facendo strada l’idea di rafforzare, con il supporto degli Stati Uniti, il mercato interno per permettere a Ericsson e Nokia di scalzare il colosso cinese.

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